21-08-2024, 10:02 AM
It's nice to have a family.
Carol Marcus Umana
Non potei fare a meno di sorridere di fronte alla battuta di Jim. «Oh, non sottovalutarti troppo. Potresti sorprendermi con la tua recitazione» replicai, lasciandomi andare a un tono leggero e divertito. Vedere quanto ci stessimo godendo questi piccoli momenti insieme mi faceva riflettere su come, nonostante tutto il caos e le difficoltà che la vita a bordo portava, riuscissimo comunque a ritagliarci questi spazi di complicità. Era qualcosa che avevo iniziato a dare per scontato, ma mi resi conto di quanto in realtà fossero preziosi.
Quando Jim si stiracchiò sulla sedia e si alzò, mi preparai a salutarlo, ma il suo sguardo si fece un po’ più serio. «Facciamo per domani sera a orario da definire? Passerò di nuovo la giornata alla conferenza di pace e non ho idea di quando riuscirò a liberarmi» spiegò, lasciando intravedere una leggera tensione. Sapevo che quelle trattative non erano semplici e che lo stavano logorando più di quanto volesse ammettere. Annuii, cercando di non mostrargli la mia preoccupazione. «Va bene, quando riesci a liberarti, fammi sapere. Sarò qui ad aspettarti» dissi con un sorriso che speravo potesse rasserenarlo almeno un po’.
Notai che Jim sembrava assorto nei suoi pensieri, il che mi fece pensare che la conferenza non fosse l’unica cosa a preoccuparlo. Lui era così: sempre pronto a mettere gli altri al primo posto, a evitare di condividere certe preoccupazioni se pensava che potessero causarmi inutili ansie. Per un attimo fui tentata di chiedergli di più, ma decisi di rispettare il suo silenzio. Conoscevo abbastanza bene Jim da sapere che, se fosse stato necessario, me ne avrebbe parlato.
Mi stavo perdendo nei miei pensieri quando lo sentii commentare con quel suo tipico tono malizioso: «Sto cominciando ad invidiare quel libro.» Sorrisi, quasi ridendo, mentre istintivamente accarezzavo ancora una volta la copertina. «Ammettilo, sei solo geloso perché finalmente qualcosa non deve presenziare come ambasciatore» ribattei, cercando di stemperare il momento con un po’ di ironia.
Jim si stropicciò gli occhi, visibilmente stanco, ma mantenne quell’aria sorniona che tanto mi piaceva. Per un istante i suoi occhi incontrarono i miei, e sembrò sul punto di dire qualcosa, ma poi abbassò lo sguardo. C’era una dolcezza in lui in quei momenti, un contrasto con l’immagine di capitano spavaldo che mi faceva apprezzare ancora di più il tempo che passavamo insieme.
«Ti accompagno alla tua cabina» disse, offrendomi il braccio con una teatrale imitazione di un gentiluomo d’altri tempi. «[color=#0074D9][b]Non si sa mai che razza di gente potresti incontrare in giro a quest’ora» aggiunse scherzando. Accettai il braccio, ridacchiando. «Beh, finora l’incontro peggiore... o migliore... sei stato tu, quindi direi che sono al sicuro» ribattei con un tono divertito.
Le luci a quell’ora erano attenuate, cercando di simulare una sorta di notte, ma la nave non dormiva mai completamente. I corridoi, solitamente affollati e pieni di vita, ora erano quasi deserti. Incontrammo solo un giovane ufficiale che ci superò di fretta, e intravidi una figura in uniforme blu girare un angolo. Era strano vedere l’Enterprise così silenziosa, quasi rilassante in un certo senso.
Raggiungemmo la mia cabina in poco tempo, e Jim si fermò sulla soglia, lasciando che la sua mano si staccasse dal mio braccio con delicatezza. «’Notte» disse con semplicità, ma con un calore che non passò inosservato. Mi accorsi che non aveva intenzione di fermarsi e, per un istante, ebbi la sensazione che volesse continuare a parlare, magari a confidarsi, ma poi lo vidi già rivolto verso il corridoio, probabilmente diretto nuovamente da dove eravamo arrivati.
«Buonanotte, Jim» risposi con un sorriso sincero, prima di entrare nella mia cabina. Mentre la porta si chiudeva alle mie spalle, non potei fare a meno di riflettere su quanto fosse strano il nostro legame. Era forte, ma allo stesso tempo, c’erano ancora così tante cose non dette tra di noi, preoccupazioni che preferivamo tenere per noi stessi. Era un equilibrio precario tra l’essere aperti e il voler proteggere l’altro dalle proprie inquietudini.
Mi sedetti sul letto, ancora con il libro tra le mani. Non ero sicura di cosa stesse passando per la testa di Jim, ma sapevo che qualunque fosse la sua preoccupazione, l’avrebbe affrontata a modo suo. Non mi restava che fidarmi di lui, così come lui si fidava di me.
Quando Jim si stiracchiò sulla sedia e si alzò, mi preparai a salutarlo, ma il suo sguardo si fece un po’ più serio. «Facciamo per domani sera a orario da definire? Passerò di nuovo la giornata alla conferenza di pace e non ho idea di quando riuscirò a liberarmi» spiegò, lasciando intravedere una leggera tensione. Sapevo che quelle trattative non erano semplici e che lo stavano logorando più di quanto volesse ammettere. Annuii, cercando di non mostrargli la mia preoccupazione. «Va bene, quando riesci a liberarti, fammi sapere. Sarò qui ad aspettarti» dissi con un sorriso che speravo potesse rasserenarlo almeno un po’.
Notai che Jim sembrava assorto nei suoi pensieri, il che mi fece pensare che la conferenza non fosse l’unica cosa a preoccuparlo. Lui era così: sempre pronto a mettere gli altri al primo posto, a evitare di condividere certe preoccupazioni se pensava che potessero causarmi inutili ansie. Per un attimo fui tentata di chiedergli di più, ma decisi di rispettare il suo silenzio. Conoscevo abbastanza bene Jim da sapere che, se fosse stato necessario, me ne avrebbe parlato.
Mi stavo perdendo nei miei pensieri quando lo sentii commentare con quel suo tipico tono malizioso: «Sto cominciando ad invidiare quel libro.» Sorrisi, quasi ridendo, mentre istintivamente accarezzavo ancora una volta la copertina. «Ammettilo, sei solo geloso perché finalmente qualcosa non deve presenziare come ambasciatore» ribattei, cercando di stemperare il momento con un po’ di ironia.
Jim si stropicciò gli occhi, visibilmente stanco, ma mantenne quell’aria sorniona che tanto mi piaceva. Per un istante i suoi occhi incontrarono i miei, e sembrò sul punto di dire qualcosa, ma poi abbassò lo sguardo. C’era una dolcezza in lui in quei momenti, un contrasto con l’immagine di capitano spavaldo che mi faceva apprezzare ancora di più il tempo che passavamo insieme.
«Ti accompagno alla tua cabina» disse, offrendomi il braccio con una teatrale imitazione di un gentiluomo d’altri tempi. «[color=#0074D9][b]Non si sa mai che razza di gente potresti incontrare in giro a quest’ora» aggiunse scherzando. Accettai il braccio, ridacchiando. «Beh, finora l’incontro peggiore... o migliore... sei stato tu, quindi direi che sono al sicuro» ribattei con un tono divertito.
Le luci a quell’ora erano attenuate, cercando di simulare una sorta di notte, ma la nave non dormiva mai completamente. I corridoi, solitamente affollati e pieni di vita, ora erano quasi deserti. Incontrammo solo un giovane ufficiale che ci superò di fretta, e intravidi una figura in uniforme blu girare un angolo. Era strano vedere l’Enterprise così silenziosa, quasi rilassante in un certo senso.
Raggiungemmo la mia cabina in poco tempo, e Jim si fermò sulla soglia, lasciando che la sua mano si staccasse dal mio braccio con delicatezza. «’Notte» disse con semplicità, ma con un calore che non passò inosservato. Mi accorsi che non aveva intenzione di fermarsi e, per un istante, ebbi la sensazione che volesse continuare a parlare, magari a confidarsi, ma poi lo vidi già rivolto verso il corridoio, probabilmente diretto nuovamente da dove eravamo arrivati.
«Buonanotte, Jim» risposi con un sorriso sincero, prima di entrare nella mia cabina. Mentre la porta si chiudeva alle mie spalle, non potei fare a meno di riflettere su quanto fosse strano il nostro legame. Era forte, ma allo stesso tempo, c’erano ancora così tante cose non dette tra di noi, preoccupazioni che preferivamo tenere per noi stessi. Era un equilibrio precario tra l’essere aperti e il voler proteggere l’altro dalle proprie inquietudini.
Mi sedetti sul letto, ancora con il libro tra le mani. Non ero sicura di cosa stesse passando per la testa di Jim, ma sapevo che qualunque fosse la sua preoccupazione, l’avrebbe affrontata a modo suo. Non mi restava che fidarmi di lui, così come lui si fidava di me.
I don't need a doctor, damn it! I am a doctor!
Leonard McCoy Umano
Ero esausto. L'interminabile giornata trascorsa sembrava non avere fine, e la visita medica all'ambasciatore era stata tanto inconcludente quanto frustrante. Non c'era nulla di evidente, nulla di significativo che potessi utilizzare per fare un passo avanti. Avevo esaminato ogni possibile sintomo, fatto tutti i test che potevano essere eseguiti a bordo dell'Enterprise, eppure mi ritrovavo con un pugno di mosche in mano.
Ero andato nella mia stanza, feci una doccia ma mi ritrovai a camminare di nuovo lentamente verso l'infermeria, la stanchezza mi pesava sulle spalle come un macigno. Sapevo che avrei dovuto andare a dormire, chiudere gli occhi e lasciare che il sonno mi portasse via tutta quella frustrazione. Ma la mia mente era troppo attiva, troppo inquieta per permettermi di staccare davvero. Non riuscivo a smettere di pensare al caso dell'ambasciatore, a cosa potessi essermi perso, a come avrei potuto fare di più. Forse era solo il mio ego da medico, quel bisogno di trovare sempre una soluzione, di avere sempre una risposta.
Mi ritrovai davanti alla mensa, e senza pensarci troppo, entrai. L'idea di un altro caffè mi attraversò la mente, ma sapevo che non sarebbe stato sufficiente. Ne avevo già bevuti troppi oggi, e il pensiero di un energy drink mi tentò. Forse quella sarebbe stata la spinta di cui avevo bisogno per continuare, per riflettere ancora un po' su cosa potesse sfuggirmi.
Mi avvicinai al replicatore, con le mani che quasi tremavano dalla stanchezza. «Energy drink» ordinai, ma poi mi fermai un attimo prima di confermare la richiesta. Esitai, guardando la selezione davanti a me. Era questo che volevo davvero? Forse stavo solo cercando una scusa per evitare di ammettere che avevo bisogno di riposo. Eppure, la voglia di risolvere quel mistero mi impediva di staccare.
Alla fine, optai per il caffè. Era un'abitudine ormai radicata, una sorta di compagno silenzioso che mi aveva sempre aiutato nei momenti più difficili; ma anche mentre lo sorseggiavo, sapevo che non avrebbe fatto altro che prolungare il mio stato di veglia, mantenendomi in questo limbo di stanchezza e ossessione.
Mi sedetti a uno dei tavoli della mensa, osservando il liquido nero nella mia tazza. Non era solo l'ambasciatore a tenermi sveglio, lo sapevo bene. C'erano sempre mille pensieri che mi attraversavano la mente, e la maggior parte di essi riguardava il benessere dell'equipaggio, la responsabilità che sentivo pesare su di me. Eppure, in quel momento, mi sentii solo, come se quella tazza di caffè fosse l'unica cosa che mi tenesse compagnia.
Avrei dovuto andare a dormire, lo sapevo, ma invece rimasi lì, con la tazza tra le mani, cercando disperatamente di trovare una soluzione che forse non c'era.
Ero andato nella mia stanza, feci una doccia ma mi ritrovai a camminare di nuovo lentamente verso l'infermeria, la stanchezza mi pesava sulle spalle come un macigno. Sapevo che avrei dovuto andare a dormire, chiudere gli occhi e lasciare che il sonno mi portasse via tutta quella frustrazione. Ma la mia mente era troppo attiva, troppo inquieta per permettermi di staccare davvero. Non riuscivo a smettere di pensare al caso dell'ambasciatore, a cosa potessi essermi perso, a come avrei potuto fare di più. Forse era solo il mio ego da medico, quel bisogno di trovare sempre una soluzione, di avere sempre una risposta.
Mi ritrovai davanti alla mensa, e senza pensarci troppo, entrai. L'idea di un altro caffè mi attraversò la mente, ma sapevo che non sarebbe stato sufficiente. Ne avevo già bevuti troppi oggi, e il pensiero di un energy drink mi tentò. Forse quella sarebbe stata la spinta di cui avevo bisogno per continuare, per riflettere ancora un po' su cosa potesse sfuggirmi.
Mi avvicinai al replicatore, con le mani che quasi tremavano dalla stanchezza. «Energy drink» ordinai, ma poi mi fermai un attimo prima di confermare la richiesta. Esitai, guardando la selezione davanti a me. Era questo che volevo davvero? Forse stavo solo cercando una scusa per evitare di ammettere che avevo bisogno di riposo. Eppure, la voglia di risolvere quel mistero mi impediva di staccare.
Alla fine, optai per il caffè. Era un'abitudine ormai radicata, una sorta di compagno silenzioso che mi aveva sempre aiutato nei momenti più difficili; ma anche mentre lo sorseggiavo, sapevo che non avrebbe fatto altro che prolungare il mio stato di veglia, mantenendomi in questo limbo di stanchezza e ossessione.
Mi sedetti a uno dei tavoli della mensa, osservando il liquido nero nella mia tazza. Non era solo l'ambasciatore a tenermi sveglio, lo sapevo bene. C'erano sempre mille pensieri che mi attraversavano la mente, e la maggior parte di essi riguardava il benessere dell'equipaggio, la responsabilità che sentivo pesare su di me. Eppure, in quel momento, mi sentii solo, come se quella tazza di caffè fosse l'unica cosa che mi tenesse compagnia.
Avrei dovuto andare a dormire, lo sapevo, ma invece rimasi lì, con la tazza tra le mani, cercando disperatamente di trovare una soluzione che forse non c'era.