31-05-2012, 12:31 AM
Salkhar
Vulcan/Romulan
Note di una vecchia canzone, come un’eco lontana, cominciarono a risuonargli nella testa. Frasi che riaffioravano scomposte, prive di qualsiasi criterio, si imposero al suo autocontrollo quando si voltò e gli occhi incrociarono quelli dell’altra.
“Poison…”
I movimenti di lei, anche quelli più impercettibili, come un gioco ammaliante e pericoloso. Ogni piccola movenza riusciva a catturarne lo sguardo, a distrarlo.
“Your mouth, so hot…”
Le labbra di lei, semidischiuse in un respiro lieve e affannoso, così ipnotico. La conversazione era, ormai, diventata muta.
“Lips like venomous poison, burnin’ deep inside my veins…”
La linea del collo, libera dei lunghi capelli, vulnerabile. Il petto, scosso dall’aria che riempiva I polmoni. E poi…
“… but my senses tell me to stop…”
Solo la voce di lei poté riportarlo indietro, alla realtà, e fu in quello stesso momento che, disorientato, si rese conto di quel che stava accadendo nella sua mente. Sbatté le palpebre più volte, per tornare, repentino, a rivolgerle l’attenzione, ma non era sicuro di aver capito bene quanto avesse cercato di dirgli.
“…Cosa?” Seguì a quello che, poco prima, era stato niente più di un leggero sussurro e che lui, assorto in altri pensieri, non era riuscito ad afferrare del tutto. Ricollegò soltanto dopo essersi sentito chiamare.
“Sì.” Si affrettò a rispondere, nel mentre che provava a scacciare la musica dalla testa, quella che gli impediva di restare lucido. Ai suoi occhi, scindere i due enti, arte e raziocinio, era fondamentale proprio per questo, per evitare di perdere il contatto col mondo reale… per impedirsi di perdere il controllo, come adesso, e si ammonì tacitamente per essersi messo a pensare al momento sbagliato a vecchie canzoni che la Haparel era solita fargli ascoltare negli anni dell’Accademia, quand’era niente più che un semplice ragazzino che si preparava a diventare un uomo.
“Sì...” ripeté ancora “…Mi chiamo Salkhar. Ha buona memoria, Guardiamarina.” Per un momento, desiderò quasi che quella di ricordarsi il suo nome non fosse stata una semplice dimostrazione della solerzia prestata durante le ore di servizio. Qualcosa che confuse con banale e ordinario interessamento nei confronti di un sottoufficiale che già cominciava a reputare capace. E certamente più attento di lui in merito a queste piccolezze. “Il Suo nome, invece, mi sfugge.” Confessò appena un po’ esitante, mentre proprio ora si accorgeva che il giovane ufficiale non lo stava più fissando negli occhi e sembrava, invece, attratta da qualcos’altro. Ne seguì lo sguardo fino a capitolare sulle mani, che sempre teneva nascoste sotto lo strato di stoffa bianca dei guanti, ancora accavallate nel gesto di poco prima. Neppure in seguito seppe spiegarsi come mai avesse avvertito l’improvviso e impellente bisogno di ficcarsele di nuovo in tasca, perché non gli era mai capitato niente del genere, in tutta la sua vita. Vedere le guance di lei vive di un colore poco più che accennato, la bocca dischiusa, sentirsene lo sguardo addosso era stato… insolito. Così… così… - imbarazzante?
Ma che diavolo gli prendeva, di punto in bianco? Mai possibile che quella ragazza potesse fargli questo strano effetto?
Tirò un lungo respiro, deciso a ridarsi un contegno. Lasciò che quel breve momento d’incertezza scivolasse via rapidamente, mentre riprendeva possesso su controllo e coscienza, poi sottopose il caso alla logica. Perché doveva per forza esserci una spiegazione razionale a quel suo comportamento anomalo. E la conclusione che ne trasse, seppur forzata, riconduceva ad una necessaria precauzione nei confronti di qualcuno che conosceva solo da pochi minuti.
“Si sente bene?” Ebbe, comunque, premura di chiederle. Era palese che quello del Sottotenente non fosse solo semplice affaticamento, ma cercò ugualmente di accettare quella come unica soluzione. E, quando lei slittò ad un altro argomento, gliene fu inconsapevolmente grato… almeno fino a che non arrivò a toccare questioni piuttosto scomode.
“Scusi?” Aggrottò le sopracciglia e mimò di porgerle l’orecchio, come chi si auguri di non aver capito bene. Ma aveva capito benissimo. Non parve preoccuparsi troppo dell’evidenza e più sembrava premergli di mettere subito le cose in chiaro. “Posso assicurarLe che il Suo è un caso isolato, Guardiamarina, statisticamente ineccepibile, se preferisce.” Risoluto, riportò la sua antitesi come un dato di fatto. Perché lui stesso ne era così convinto da non poter accettare una soluzione differente, neppure di fronte una prova così schiacciante. “Questo rafforza la mia convinzione che Lei non sia puramente vulcaniana ed abbia, forse inconsciamente, potuto acquisire qualche capacità extrasensoriale aliena estremamente sofisticata.” Concluse, sobrio. Troppo sobrio. Schifosamente sobrio. Sobrietà che vacillava un po’ di più ad ogni nuova parola della giovane donna. Era ovvio che volesse provocare e lui, senza rendersene conto, stava pure dandole adito.
Straordinario, diceva? Non c’era niente di straordinario nell’essere sospeso a metà tra ragione e violenza.
“Irrilevante.” Fu freddo, perentorio, e stavolta lo ignorò, il sorriso che lei gli offriva. Prese a spostarsi, invece, e la superò nuovamente, a passi lenti, sostenendone lo sguardo fino a che gli fu possibile, frattanto che portava le mani ad allacciarsi dietro la schiena. L’atmosfera cominciava ad irrigidirsi.
“Sono nato su Vulcano. Mia Madre era una vulcaniana, mio Padre romulano solo per metà.” Non sembrava una confessione, dava più la sensazione di stare fornendo una serie di dati ad un problema. “Sono cresciuto tra vulcaniani, sotto stretta osservanza delle ideologie e della disciplina vulcaniane e non ho mai lasciato il pianeta, prima della sua distruzione.” Una breve pausa, che prese per tornare a voltarsi, occhi nuovamente agli occhi. “Il sangue non è motivo di influenza. La Sua conclusione non è logica.” Concluse e se da un lato poteva essere vero, logico, dall’altro… dall’altro c’era quel legame naturale con Sorak.
Ma non pretendeva che lei capisse. Ascoltò, ascoltò tutto quello che avesse da dirgli e, più andava avanti nella sua storia, più la convinzione che il Guardiamarina si sbagliasse diventava più forte. Perché cosa poteva saperne di cosa significasse essere vulcaniano la figlia di una V’tosh ka’tur, cresciuta su Delta IV, dalle dubbie origini e perfino affidata ad un mentore mezzo umano? Che pretendeva di saperne?
“Capisco.” Si limitò a darle in risposta e solo dopo una breve pausa aggiunse dell’altro. “Conosco l’Ambasciatore Spock. Non di persona.” Le confidò. Poi si passò una mano tra i capelli, segno che tornava a rilassarsi. “Ma è noto il suo impegno per i vulcaniani superstiti. L’Ambasciatore ha tutto il mio apprezzamento.” Beh, in realtà, quello del giovane Comandante per Spock era più di semplice apprezzamento. Se ora era lì, nella Flotta Stellare, braccio destro del Capitano Harris della U.S.S. Eternity, era solo per seguire l’esempio di qualcuno che ammirava e per cui nutriva un profondo rispetto.
“Poison…”
I movimenti di lei, anche quelli più impercettibili, come un gioco ammaliante e pericoloso. Ogni piccola movenza riusciva a catturarne lo sguardo, a distrarlo.
“Your mouth, so hot…”
Le labbra di lei, semidischiuse in un respiro lieve e affannoso, così ipnotico. La conversazione era, ormai, diventata muta.
“Lips like venomous poison, burnin’ deep inside my veins…”
La linea del collo, libera dei lunghi capelli, vulnerabile. Il petto, scosso dall’aria che riempiva I polmoni. E poi…
“… but my senses tell me to stop…”
Solo la voce di lei poté riportarlo indietro, alla realtà, e fu in quello stesso momento che, disorientato, si rese conto di quel che stava accadendo nella sua mente. Sbatté le palpebre più volte, per tornare, repentino, a rivolgerle l’attenzione, ma non era sicuro di aver capito bene quanto avesse cercato di dirgli.
“…Cosa?” Seguì a quello che, poco prima, era stato niente più di un leggero sussurro e che lui, assorto in altri pensieri, non era riuscito ad afferrare del tutto. Ricollegò soltanto dopo essersi sentito chiamare.
“Sì.” Si affrettò a rispondere, nel mentre che provava a scacciare la musica dalla testa, quella che gli impediva di restare lucido. Ai suoi occhi, scindere i due enti, arte e raziocinio, era fondamentale proprio per questo, per evitare di perdere il contatto col mondo reale… per impedirsi di perdere il controllo, come adesso, e si ammonì tacitamente per essersi messo a pensare al momento sbagliato a vecchie canzoni che la Haparel era solita fargli ascoltare negli anni dell’Accademia, quand’era niente più che un semplice ragazzino che si preparava a diventare un uomo.
“Sì...” ripeté ancora “…Mi chiamo Salkhar. Ha buona memoria, Guardiamarina.” Per un momento, desiderò quasi che quella di ricordarsi il suo nome non fosse stata una semplice dimostrazione della solerzia prestata durante le ore di servizio. Qualcosa che confuse con banale e ordinario interessamento nei confronti di un sottoufficiale che già cominciava a reputare capace. E certamente più attento di lui in merito a queste piccolezze. “Il Suo nome, invece, mi sfugge.” Confessò appena un po’ esitante, mentre proprio ora si accorgeva che il giovane ufficiale non lo stava più fissando negli occhi e sembrava, invece, attratta da qualcos’altro. Ne seguì lo sguardo fino a capitolare sulle mani, che sempre teneva nascoste sotto lo strato di stoffa bianca dei guanti, ancora accavallate nel gesto di poco prima. Neppure in seguito seppe spiegarsi come mai avesse avvertito l’improvviso e impellente bisogno di ficcarsele di nuovo in tasca, perché non gli era mai capitato niente del genere, in tutta la sua vita. Vedere le guance di lei vive di un colore poco più che accennato, la bocca dischiusa, sentirsene lo sguardo addosso era stato… insolito. Così… così… - imbarazzante?
Ma che diavolo gli prendeva, di punto in bianco? Mai possibile che quella ragazza potesse fargli questo strano effetto?
Tirò un lungo respiro, deciso a ridarsi un contegno. Lasciò che quel breve momento d’incertezza scivolasse via rapidamente, mentre riprendeva possesso su controllo e coscienza, poi sottopose il caso alla logica. Perché doveva per forza esserci una spiegazione razionale a quel suo comportamento anomalo. E la conclusione che ne trasse, seppur forzata, riconduceva ad una necessaria precauzione nei confronti di qualcuno che conosceva solo da pochi minuti.
“Si sente bene?” Ebbe, comunque, premura di chiederle. Era palese che quello del Sottotenente non fosse solo semplice affaticamento, ma cercò ugualmente di accettare quella come unica soluzione. E, quando lei slittò ad un altro argomento, gliene fu inconsapevolmente grato… almeno fino a che non arrivò a toccare questioni piuttosto scomode.
“Scusi?” Aggrottò le sopracciglia e mimò di porgerle l’orecchio, come chi si auguri di non aver capito bene. Ma aveva capito benissimo. Non parve preoccuparsi troppo dell’evidenza e più sembrava premergli di mettere subito le cose in chiaro. “Posso assicurarLe che il Suo è un caso isolato, Guardiamarina, statisticamente ineccepibile, se preferisce.” Risoluto, riportò la sua antitesi come un dato di fatto. Perché lui stesso ne era così convinto da non poter accettare una soluzione differente, neppure di fronte una prova così schiacciante. “Questo rafforza la mia convinzione che Lei non sia puramente vulcaniana ed abbia, forse inconsciamente, potuto acquisire qualche capacità extrasensoriale aliena estremamente sofisticata.” Concluse, sobrio. Troppo sobrio. Schifosamente sobrio. Sobrietà che vacillava un po’ di più ad ogni nuova parola della giovane donna. Era ovvio che volesse provocare e lui, senza rendersene conto, stava pure dandole adito.
Straordinario, diceva? Non c’era niente di straordinario nell’essere sospeso a metà tra ragione e violenza.
“Irrilevante.” Fu freddo, perentorio, e stavolta lo ignorò, il sorriso che lei gli offriva. Prese a spostarsi, invece, e la superò nuovamente, a passi lenti, sostenendone lo sguardo fino a che gli fu possibile, frattanto che portava le mani ad allacciarsi dietro la schiena. L’atmosfera cominciava ad irrigidirsi.
“Sono nato su Vulcano. Mia Madre era una vulcaniana, mio Padre romulano solo per metà.” Non sembrava una confessione, dava più la sensazione di stare fornendo una serie di dati ad un problema. “Sono cresciuto tra vulcaniani, sotto stretta osservanza delle ideologie e della disciplina vulcaniane e non ho mai lasciato il pianeta, prima della sua distruzione.” Una breve pausa, che prese per tornare a voltarsi, occhi nuovamente agli occhi. “Il sangue non è motivo di influenza. La Sua conclusione non è logica.” Concluse e se da un lato poteva essere vero, logico, dall’altro… dall’altro c’era quel legame naturale con Sorak.
Ma non pretendeva che lei capisse. Ascoltò, ascoltò tutto quello che avesse da dirgli e, più andava avanti nella sua storia, più la convinzione che il Guardiamarina si sbagliasse diventava più forte. Perché cosa poteva saperne di cosa significasse essere vulcaniano la figlia di una V’tosh ka’tur, cresciuta su Delta IV, dalle dubbie origini e perfino affidata ad un mentore mezzo umano? Che pretendeva di saperne?
“Capisco.” Si limitò a darle in risposta e solo dopo una breve pausa aggiunse dell’altro. “Conosco l’Ambasciatore Spock. Non di persona.” Le confidò. Poi si passò una mano tra i capelli, segno che tornava a rilassarsi. “Ma è noto il suo impegno per i vulcaniani superstiti. L’Ambasciatore ha tutto il mio apprezzamento.” Beh, in realtà, quello del giovane Comandante per Spock era più di semplice apprezzamento. Se ora era lì, nella Flotta Stellare, braccio destro del Capitano Harris della U.S.S. Eternity, era solo per seguire l’esempio di qualcuno che ammirava e per cui nutriva un profondo rispetto.