03-06-2012, 03:01 AM
Salkhar
Vulcan/Romulan
Lunatismo. Un’altra volta, come tante già in passato, poté averne una dimostrazione tangibile e tutta emozionale. Amava definirla l’apoteosi dell’antitetismo, che veniva ad emergere, uguale e, allo stesso tempo, contraria dai reconditi di un unico essere. Lo sguardo acceso, che solo fino ad un attimo prima raccontava di vivace desiderio, aveva ora assunto un acre sapore di disincanto. Era rabbia, disapprovazione, quella che si leggeva su quel volto dai connotati ancora tanto infantili? Collera, sdegno, le chiamavano i sentimentalisti? Ciò non seppe bene identificarlo, non con dovizia di particolare, ma era sicuro che qualcosa fosse improvvisamente andata storta. La conferma erano le strette fessure degli occhi, la fronte arricciata, la rigida postura dell’immagine, prima distesa ed ora ritta, indurita in una stasi di ostinazione. Una stasi che fece scivolare via del tutto la magia dei momenti trascorsi, per cedere il posto ad un convenzionalismo forse troppo avulso ed estromettente per avere la forma di due ingenui ragazzini che giocavano a fare gli adulti pretenziosi.
Ascoltava, ascoltava tutto, Salkhar. Non si lasciava sfuggire una parola e neppure gli sfiorò l’idea di interromperla mentre continuava ad accusarlo. Perché era un’accusa, quella che gli stava muovendo, o almeno a lui suonava come tale. Sollevò le sopracciglia quasi per scherno, d’un tratto poté apparire addirittura ironico, come stesse prestando attenzione alle opinioni di un folle che pretendesse di avere ragione. Perché era quello che, ora, credeva di lei, benché, in fondo, nel katra più nascosto, la parte che non avrebbe mai imparato ad accettare, sapeva che il giovane Sottotenente non stava del tutto farneticando.
Attese che la sua interlocutrice ebbe terminato il lungo monologo, il giovane Comandante, ancora con le mani allacciate dietro la schiena, in un duro formalismo che gli conferiva aria di superbia, accentuata forse dalla statura, per la quale poteva solo guardarla dall’alto in basso.
“Capisco.” Mancava ironia nelle parole. La voce piatta, malgrado l’apparenza volesse rivelare tutt’altro.
Riprese a muoversi – mal sopportava di stare troppo tempo fermo allo stesso posto – questa volta spostandosi sulla sinistra, a falcate brevi e controllate.
“Ma ritengo che quella dei paraocchi – per riprendere la Sua espressione – sia un’accusa reversibile, a Lei stessa imputabile.” Ora le dava le spalle. “Sarebbe stata più credibile se avesse almeno provato a mascherare l’astio, ma così cade in contraddizione. Il Suo diventa un giudizio fazioso.” Rigirò su se stesso, ripercorrendo i suoi passi a ritroso, lento, e solo di tanto in tanto ne incrociava lo sguardo. “Apprezzo, comunque, lo sforzo di condiscendenza alle idiosincrasie culturali, che – mi permetta di confessarLe…” tornò a fermarsi, a questo punto, davanti all’altra “… sono per me motivo di vanto.” Non ebbe bisogno di usare particolari inflessioni per risultare sardonico, palesemente provocatorio.
Breve pausa. Le offrì il tempo di metabolizzare, mentre lui riorganizzava i pensieri, prima di proseguire. Forse, piuttosto meschino da parte sua, ma non riteneva di essere stato il primo a cominciare.
“A tal proposito, mi perdoni Lei, ma ritengo sia inesatto affermare che il sangue abbia la medesima valenza di altri elementi e, anzi…” già troppo aveva resistito immobile, per questo si diresse sulla destra, questa volta. Le mani che, dalla schiena, tornavano a scivolare nelle tasche. “…ritengo che la percentuale di influenza sia talmente infima da essere addirittura trascurabile.” Trascurabile per suo fratello, forse meno per suo padre. Forse meno per lui.
“Genotipo è solo forma animale, corredo cromosomico, intelaiatura – per usare una metafora – che nelle creature pensanti, logiche, può essere facilmente eclissato dai risultati fenotipici, dall’esperire materiale, se preferisce.” Perché doveva essere così, perché sapeva che Sorak era diverso. Stesso cuore, stesso riflesso, ma qualcosa negli impulsi non era mai stata la stessa. C’era quella forza critica, quella consapevolezza di sé che da sempre li rendeva così… distanti. “Società, cultura, educazione nutrono la mente, la rafforzano, e più forte è la mente, più la capacità di controllo diventa incisiva.” Mente. Controllo. Logica. Costanza. Parole che riecheggiavano nella testa, come un maledetto mantra, come legge e tormentata ossessione. Inconscio fu il gesto di mordersi il labbro inferiore per un breve istante, quando, ancora una volta, dava a lei le spalle. “La Logica rende l’azione genotipica inefficace, offrendo il beneficio dell’equilibrio e dell’autocontrollo.” Quella conclusione, la sua conclusione, era anche il credo di tutta una vita. Così radicato da rendergli futile la presa di posizione della giovane donna che, ora, figurava ai suoi occhi con le braccia al petto, conserte. Si chiudeva, mentre lui era un passo più vicino. “Può trovare questo d’interessante in me, se può farLe piacere:…” due passi “…il distacco dall’alieno, la cessazione dell’elemento estraneo.” Tre passi. “Posso dargliene atto, altrimenti…” Adesso fermo, a poco più di un metro. “…resti pure della Sua convinzione. Non cambierebbe comunque la realtà dei fatti.” Finiva così, per lui, quello scambio di opinioni, in un imperativo categorico, che lasciava poca possibilità alle ritrattazioni. Logica era certezza, certezza assoluta, infallibile, tassativa e vent’anni erano stati sufficienti a consolidarne la convinzione. Comunque il Sottotenente la pensasse, non aveva per lui alcuna importanza. Anche a costo di ferirla, perché era troppo forte, l’istinto di autodifesa, per essere ignorato. La osservava stringersi con mestizia nel suo abbraccio solitario e si disse che era stato necessario. Ma non era molto sicuro che quell’aria amareggiata fosse il risultato della sua aperta riflessione. No. Non poteva essere così semplice, non così banale. Timore reverenziale? Non avrebbe mai potuto covare risentimento per una questione trascendente la disciplina, ma allora… poteva ricondursi alle parole che lei avrebbe pronunciato subito dopo? Parole che volevano ammonire, ma non lo facevano.
“Ad esclusione di me, del Capitano Harris e del Comandante Heparel, l’Eternity conta settecentoquarantasette ufficiali, Guardiamarina. Comprenderà che non è una cifra esigua.” Non tentava di giustificarsi, solo di renderla partecipe di una sua difficoltà. Eppure qualcosa gli suggeriva che avrebbe fatto meglio a restarsene in silenzio. E fu ciò ad impedirgli di lasciar morire la diatriba, anche quando nella sala risuonò un breve fischio, seguito dall’annuncio di una voce che pareva sintetica.
“Il Comandante Salkar è richiesto sul Ponte 9. Ripeto: il Comandante Salkar si presenti al Ponte 9.”
“Ma non posso certamente negare che si tratti di una mia mancanza, a cui provvederò a porre rimedio stasera stessa.” Era una promessa, la sua, seppur obliqua, mascherata da dovere professionale. E con quella promessa sollevò la mancina nel gesto del ta’al. “Dif-tor heh smusma.” Il suo egoistico saluto di circostanza, a cui appose un leggero cenno del capo, prima di voltarsi e incamminarsi verso l’uscita. Sapeva, però - in cuor suo, sperava – che quello, tra loro, non sarebbe stato l’ultimo battibecco…
Ascoltava, ascoltava tutto, Salkhar. Non si lasciava sfuggire una parola e neppure gli sfiorò l’idea di interromperla mentre continuava ad accusarlo. Perché era un’accusa, quella che gli stava muovendo, o almeno a lui suonava come tale. Sollevò le sopracciglia quasi per scherno, d’un tratto poté apparire addirittura ironico, come stesse prestando attenzione alle opinioni di un folle che pretendesse di avere ragione. Perché era quello che, ora, credeva di lei, benché, in fondo, nel katra più nascosto, la parte che non avrebbe mai imparato ad accettare, sapeva che il giovane Sottotenente non stava del tutto farneticando.
Attese che la sua interlocutrice ebbe terminato il lungo monologo, il giovane Comandante, ancora con le mani allacciate dietro la schiena, in un duro formalismo che gli conferiva aria di superbia, accentuata forse dalla statura, per la quale poteva solo guardarla dall’alto in basso.
“Capisco.” Mancava ironia nelle parole. La voce piatta, malgrado l’apparenza volesse rivelare tutt’altro.
Riprese a muoversi – mal sopportava di stare troppo tempo fermo allo stesso posto – questa volta spostandosi sulla sinistra, a falcate brevi e controllate.
“Ma ritengo che quella dei paraocchi – per riprendere la Sua espressione – sia un’accusa reversibile, a Lei stessa imputabile.” Ora le dava le spalle. “Sarebbe stata più credibile se avesse almeno provato a mascherare l’astio, ma così cade in contraddizione. Il Suo diventa un giudizio fazioso.” Rigirò su se stesso, ripercorrendo i suoi passi a ritroso, lento, e solo di tanto in tanto ne incrociava lo sguardo. “Apprezzo, comunque, lo sforzo di condiscendenza alle idiosincrasie culturali, che – mi permetta di confessarLe…” tornò a fermarsi, a questo punto, davanti all’altra “… sono per me motivo di vanto.” Non ebbe bisogno di usare particolari inflessioni per risultare sardonico, palesemente provocatorio.
Breve pausa. Le offrì il tempo di metabolizzare, mentre lui riorganizzava i pensieri, prima di proseguire. Forse, piuttosto meschino da parte sua, ma non riteneva di essere stato il primo a cominciare.
“A tal proposito, mi perdoni Lei, ma ritengo sia inesatto affermare che il sangue abbia la medesima valenza di altri elementi e, anzi…” già troppo aveva resistito immobile, per questo si diresse sulla destra, questa volta. Le mani che, dalla schiena, tornavano a scivolare nelle tasche. “…ritengo che la percentuale di influenza sia talmente infima da essere addirittura trascurabile.” Trascurabile per suo fratello, forse meno per suo padre. Forse meno per lui.
“Genotipo è solo forma animale, corredo cromosomico, intelaiatura – per usare una metafora – che nelle creature pensanti, logiche, può essere facilmente eclissato dai risultati fenotipici, dall’esperire materiale, se preferisce.” Perché doveva essere così, perché sapeva che Sorak era diverso. Stesso cuore, stesso riflesso, ma qualcosa negli impulsi non era mai stata la stessa. C’era quella forza critica, quella consapevolezza di sé che da sempre li rendeva così… distanti. “Società, cultura, educazione nutrono la mente, la rafforzano, e più forte è la mente, più la capacità di controllo diventa incisiva.” Mente. Controllo. Logica. Costanza. Parole che riecheggiavano nella testa, come un maledetto mantra, come legge e tormentata ossessione. Inconscio fu il gesto di mordersi il labbro inferiore per un breve istante, quando, ancora una volta, dava a lei le spalle. “La Logica rende l’azione genotipica inefficace, offrendo il beneficio dell’equilibrio e dell’autocontrollo.” Quella conclusione, la sua conclusione, era anche il credo di tutta una vita. Così radicato da rendergli futile la presa di posizione della giovane donna che, ora, figurava ai suoi occhi con le braccia al petto, conserte. Si chiudeva, mentre lui era un passo più vicino. “Può trovare questo d’interessante in me, se può farLe piacere:…” due passi “…il distacco dall’alieno, la cessazione dell’elemento estraneo.” Tre passi. “Posso dargliene atto, altrimenti…” Adesso fermo, a poco più di un metro. “…resti pure della Sua convinzione. Non cambierebbe comunque la realtà dei fatti.” Finiva così, per lui, quello scambio di opinioni, in un imperativo categorico, che lasciava poca possibilità alle ritrattazioni. Logica era certezza, certezza assoluta, infallibile, tassativa e vent’anni erano stati sufficienti a consolidarne la convinzione. Comunque il Sottotenente la pensasse, non aveva per lui alcuna importanza. Anche a costo di ferirla, perché era troppo forte, l’istinto di autodifesa, per essere ignorato. La osservava stringersi con mestizia nel suo abbraccio solitario e si disse che era stato necessario. Ma non era molto sicuro che quell’aria amareggiata fosse il risultato della sua aperta riflessione. No. Non poteva essere così semplice, non così banale. Timore reverenziale? Non avrebbe mai potuto covare risentimento per una questione trascendente la disciplina, ma allora… poteva ricondursi alle parole che lei avrebbe pronunciato subito dopo? Parole che volevano ammonire, ma non lo facevano.
“Ad esclusione di me, del Capitano Harris e del Comandante Heparel, l’Eternity conta settecentoquarantasette ufficiali, Guardiamarina. Comprenderà che non è una cifra esigua.” Non tentava di giustificarsi, solo di renderla partecipe di una sua difficoltà. Eppure qualcosa gli suggeriva che avrebbe fatto meglio a restarsene in silenzio. E fu ciò ad impedirgli di lasciar morire la diatriba, anche quando nella sala risuonò un breve fischio, seguito dall’annuncio di una voce che pareva sintetica.
“Il Comandante Salkar è richiesto sul Ponte 9. Ripeto: il Comandante Salkar si presenti al Ponte 9.”
“Ma non posso certamente negare che si tratti di una mia mancanza, a cui provvederò a porre rimedio stasera stessa.” Era una promessa, la sua, seppur obliqua, mascherata da dovere professionale. E con quella promessa sollevò la mancina nel gesto del ta’al. “Dif-tor heh smusma.” Il suo egoistico saluto di circostanza, a cui appose un leggero cenno del capo, prima di voltarsi e incamminarsi verso l’uscita. Sapeva, però - in cuor suo, sperava – che quello, tra loro, non sarebbe stato l’ultimo battibecco…