05-05-2012, 01:20 AM
Salkhar
Vulcan/Romulan
“Soffiare da sotto al naso”. I polpastrelli della dita ne sfiorarono la punta, mentre ancora ripensava alle parole di Hak-rim. A lui suonavano solo come un’accozzaglia di espressioni messe assieme alla rinfusa, a cui non riusciva ad associare neppure un barlume di significato. Continuò a rifletterci anche quando i suoi passi si arrestarono al termine della lunga fila di studenti in attesa del proprio turno al banco mensa. Per quanto ne sapeva, poteva anche trattarsi dell’ennesimo modo di dire terrestre e, anzi, ne era quasi certo, ma si chiese se non fosse il caso di controllare sul suo dPad per togliersi dalla testa ogni dubbio. Di gente da aspettare ce n’era ancora fino a vomitare e, vista la sua altezza, non ebbe bisogno di sollevarsi sulle punte dei piedi per poterlo verificare. Come minimo aveva davanti a sé altri venti minuti di attesa. Stando così le cose, aveva solo tempo da guadagnarci a dare un’occhiata veloce. La mancina, fasciata da un sottile strato di stoffa bianca, scivolò dalla tasca dei pantaloni alla giacca della divisa scolastica, che portava, come in genere, completamente sbottonata, a lasciare intravedere il tessuto nero di una semplice maglietta di cotone non molto attillata. Il dPad era nel taschino interno, da dove lo estrasse con un rapido gesto. Non gli sembrò il caso di ricorrere ai comandi vocali in un luogo tanto affollato, per cui opzionò quelli manuali, frattanto che, afferrando la punta di stoffa del medio con gli incisivi, si sfilava il guanto, lasciando in libertà la mano, dalla pelle chiara e lievemente verdastra. Un evento che accadeva davvero molto raramente, Dio solo sapeva quanto per lui fosse fastidioso restarne senza, almeno nei luoghi pubblici. Era nella natura dei vulcaniani rifiutare il contatto fisico, soprattutto quando questo coinvolgeva le mani, e Salkahr, poi, di questo rigetto, ne aveva fatto un vero e proprio stile di vita. E tutto perché gli era così dannatamente facile instaurare contatti telepatici con le altre persone da averne abbastanza già alla ridicola età di diciassette anni. Nella sua giovane vita riteneva di aver intrattenuto sufficienti legami mentali che neppure si erano rivelati benefici, soprattutto considerando il fatto che tre di questi si erano conclusi in tragedia. Avrebbe annichilito difficilmente il ricordo dello shock subito per la morte di T’Vel e ancora più strenua sarebbe stata l’impresa di liberarsi da quello inflittogli dalla perdita dei suoi genitori. Se la fine della sua promessa gli aveva bruscamente scaraventato addosso quello che con lei aveva condiviso col giuramento che li aveva legati, quella di T’Mana e T’maekh lo aveva letteralmente distrutto, nella mente e nel katra. Ma né per loro né per la fine di Vulcano aveva versato una sola lacrima. E forse Salkhar neppure sapeva piangere. Semplicemente, si era rassegnato all’idea di non poter far niente, accettando la situazione con la dignità vulcaniana che suo padre gli aveva insegnatom e con la stessa dignità aveva pure riconosciuto che qualcosa dentro di lui non sarebbe mai più stata la stessa: era cambiato il suo modo di vedere gli altri e sé stesso. Per questo non avrebbe più toccato nessuno, se non ne fosse valsa la pena, e sempre avrebbe considerato penosa la convivenza con quella sua ambigua natura romulana che, ora più che mai, non poteva e non voleva sforzarsi di comprendere. Sorak, probabilmente, gli avrebbe dato dell’emotivo.
“Salve, Salkar.” Una voce femminile, profonda, lo invitò a distogliere l’attenzione dal dPad e a sollevare il capo in sua direzione. Non impiegò molto a riconoscere la figura dell’avvenente orioniana del corso di fisica, affiancata da un esiguo gruppetto di studentesse (immaginava fossero conoscenti), poco lontano, sulla destra. La malizia che la creatura usò per avvicinarsi era qualcosa che il vulcaniano non poteva cogliere del tutto e che ricondusse, più che altro, al modo di fare della sua specie. D’altronde ricordava che Orione fosse particolarmente rinomato per la… disinvoltura delle sue donne. Per questo non ci vedeva niente di insolito nel fatto che il cadetto giocasse a fare la gatta morta, come la definiva Hak-rim, con lui.
Com’era quel detto terrestre? “Parli del diavolo e spuntano le corna.”
“Signorina Harrad-Sar.” Rispose al saluto con un leggero cenno del capo, mentre quella già gli stava a poco meno di un metro di distanza.
“Posso disturbarLa dopo le lezioni? Sa’, avrei bisogno di alcune delucidazioni sulle interazioni elettromagnetiche...” C’era qualcosa di strano nel modo di esprimersi dell’orioniana, a detta del mezzosangue. Qualche volta, aveva questa strana abitudine di parlare intensamente e sottovoce, nonché di marcare particolarmente alcune parole rispetto ad altre. “Magari nel mio alloggio, intorno alle sette…”
Chiunque altro sarebbe stato abbastanza sveglio da captare immediatamente il messaggio insito nella richiesta dell’orioniana, ma Salkahr non vantava certo una grande esperienza in fatto di donne, soprattutto non di questo genere. Le vulcaniane erano molto diverse dalla maggior parte di quelle che aveva conosciuto in Accademia e sarebbe stato pretendere troppo che un diciassettenne addestrato a somigliare ad un androide e a, forse, qualche anno luce dal primo Pon Farr ne sapesse qualcosa di sesso. Era illogico rifiutarsi di prestare aiuto ad una collega che, almeno, rispetto ad altri, si sforzava di rivolgergli la parola. Perché, in sei mesi, poteva dirsi ancora lontano dall’essere integrato col resto degli studenti. Non che ne avesse colpa, considerato che il vulcaniano era capace di attaccare bottone con chiunque anche solo per semplice curiosità, senza contare la strabiliante capacità di cominciare a parlare a ruota libera, se gliene si dava l’occasione. Eppure c’era qualcosa che lo differenziava dagli altri e che allo stesso tempo gli sfuggiva. Ai terrestri, il più delle volte, piaceva parlare di cose banali, e spesso gli era difficile stare dietro ai loro discorsi. Non poteva ridere assieme a loro, non ne capiva le battute e, soprattutto, non aveva idea del perché amassero così tanto dare inizio ad accese discussioni e violente risse. Un certo interesse reciproco aveva potuto trovarlo solo negli studenti del corso di xenoantropologia e una buona parte di questi erano di sesso femminile. Forse questo poteva anche servire a dare una spiegazione ad almeno il cinquanta percento dei nemici maschi che s’era creato nell’ambiente. L’altro cinquanta, o odiava i vulcaniani o non sopportava i secchioni.
“Sarà un piacere, signorina.” Le propinò la tipica frase di circostanza, mentre quella si mostrava molto più interessata a qualcos’altro.
“Era proprio quel che mi auguravo di sentire.” Sussurrò appena, scorrendo maliziosamente un dito all’altezza del petto del mezzosangue, che, da parte sua, non sembrò scomporsi minimamente. “Non faccia tardi, mh?” Si raccomandò, prima di voltarsi ed ondeggiare fino al gruppetto che s’era lasciata dietro poco prima.
“Non è costume dei vulcaniani ritardare.” Le fece eco, osservandola allontanarsi assieme alle sconosciute, tra moine e chiacchiericci indistinguibili nella confusione. A vederle così gli ricordavano uno stormo di oche starnazzanti che se ne ritornava alla stia. Forse ora cominciava a capire come funzionassero le metafore.
Almeno l’incontro era valso ad alleviargli i tempi d’attesa e ora non gli restava che riempirsi il vassoio. Aveva avuto modo di abituarsi precocemente al cibo terrestre, anche se qualcosa di vulcaniano all’Accademia si poteva sempre trovare. Da perfetto vegano, optò per diversi tipi di ortaggi e verdure e del latte di soia, poi si mise alla ricerca di un tavolo libero e non gli fu difficile trovare un posto, dal momento che una delle ragazze del corso di antropologia filosofica sbandierava la mano a pochi metri di distanza per attirare la sua attenzione. E lì si dirigeva quando qualcuno, passandogli accanto, con uno spintone, gli fece letteralmente volare il vassoio dalle mani, che andò a capitolare su un tavolo nelle immediate vicinanze. E, chissà perché, immaginava già chi potesse l’autore di un atto così insensato e gratuito.
“Hey, vulcan, ma che c***o fai? Guarda dove cammini, imbecille!”
“Salve, Salkar.” Una voce femminile, profonda, lo invitò a distogliere l’attenzione dal dPad e a sollevare il capo in sua direzione. Non impiegò molto a riconoscere la figura dell’avvenente orioniana del corso di fisica, affiancata da un esiguo gruppetto di studentesse (immaginava fossero conoscenti), poco lontano, sulla destra. La malizia che la creatura usò per avvicinarsi era qualcosa che il vulcaniano non poteva cogliere del tutto e che ricondusse, più che altro, al modo di fare della sua specie. D’altronde ricordava che Orione fosse particolarmente rinomato per la… disinvoltura delle sue donne. Per questo non ci vedeva niente di insolito nel fatto che il cadetto giocasse a fare la gatta morta, come la definiva Hak-rim, con lui.
Com’era quel detto terrestre? “Parli del diavolo e spuntano le corna.”
“Signorina Harrad-Sar.” Rispose al saluto con un leggero cenno del capo, mentre quella già gli stava a poco meno di un metro di distanza.
“Posso disturbarLa dopo le lezioni? Sa’, avrei bisogno di alcune delucidazioni sulle interazioni elettromagnetiche...” C’era qualcosa di strano nel modo di esprimersi dell’orioniana, a detta del mezzosangue. Qualche volta, aveva questa strana abitudine di parlare intensamente e sottovoce, nonché di marcare particolarmente alcune parole rispetto ad altre. “Magari nel mio alloggio, intorno alle sette…”
Chiunque altro sarebbe stato abbastanza sveglio da captare immediatamente il messaggio insito nella richiesta dell’orioniana, ma Salkahr non vantava certo una grande esperienza in fatto di donne, soprattutto non di questo genere. Le vulcaniane erano molto diverse dalla maggior parte di quelle che aveva conosciuto in Accademia e sarebbe stato pretendere troppo che un diciassettenne addestrato a somigliare ad un androide e a, forse, qualche anno luce dal primo Pon Farr ne sapesse qualcosa di sesso. Era illogico rifiutarsi di prestare aiuto ad una collega che, almeno, rispetto ad altri, si sforzava di rivolgergli la parola. Perché, in sei mesi, poteva dirsi ancora lontano dall’essere integrato col resto degli studenti. Non che ne avesse colpa, considerato che il vulcaniano era capace di attaccare bottone con chiunque anche solo per semplice curiosità, senza contare la strabiliante capacità di cominciare a parlare a ruota libera, se gliene si dava l’occasione. Eppure c’era qualcosa che lo differenziava dagli altri e che allo stesso tempo gli sfuggiva. Ai terrestri, il più delle volte, piaceva parlare di cose banali, e spesso gli era difficile stare dietro ai loro discorsi. Non poteva ridere assieme a loro, non ne capiva le battute e, soprattutto, non aveva idea del perché amassero così tanto dare inizio ad accese discussioni e violente risse. Un certo interesse reciproco aveva potuto trovarlo solo negli studenti del corso di xenoantropologia e una buona parte di questi erano di sesso femminile. Forse questo poteva anche servire a dare una spiegazione ad almeno il cinquanta percento dei nemici maschi che s’era creato nell’ambiente. L’altro cinquanta, o odiava i vulcaniani o non sopportava i secchioni.
“Sarà un piacere, signorina.” Le propinò la tipica frase di circostanza, mentre quella si mostrava molto più interessata a qualcos’altro.
“Era proprio quel che mi auguravo di sentire.” Sussurrò appena, scorrendo maliziosamente un dito all’altezza del petto del mezzosangue, che, da parte sua, non sembrò scomporsi minimamente. “Non faccia tardi, mh?” Si raccomandò, prima di voltarsi ed ondeggiare fino al gruppetto che s’era lasciata dietro poco prima.
“Non è costume dei vulcaniani ritardare.” Le fece eco, osservandola allontanarsi assieme alle sconosciute, tra moine e chiacchiericci indistinguibili nella confusione. A vederle così gli ricordavano uno stormo di oche starnazzanti che se ne ritornava alla stia. Forse ora cominciava a capire come funzionassero le metafore.
Almeno l’incontro era valso ad alleviargli i tempi d’attesa e ora non gli restava che riempirsi il vassoio. Aveva avuto modo di abituarsi precocemente al cibo terrestre, anche se qualcosa di vulcaniano all’Accademia si poteva sempre trovare. Da perfetto vegano, optò per diversi tipi di ortaggi e verdure e del latte di soia, poi si mise alla ricerca di un tavolo libero e non gli fu difficile trovare un posto, dal momento che una delle ragazze del corso di antropologia filosofica sbandierava la mano a pochi metri di distanza per attirare la sua attenzione. E lì si dirigeva quando qualcuno, passandogli accanto, con uno spintone, gli fece letteralmente volare il vassoio dalle mani, che andò a capitolare su un tavolo nelle immediate vicinanze. E, chissà perché, immaginava già chi potesse l’autore di un atto così insensato e gratuito.
“Hey, vulcan, ma che c***o fai? Guarda dove cammini, imbecille!”