10-04-2016, 09:13 AM
Nyota Uhura in "La sfera di Dyson"
Carattere & Storia
Citazione:E lei? Ne era innamorata? No. Per quanto lo ammirasse profondamente, lei non amava Spock. Lei non era la Chapel, paga di un amore non ricambiato. In realtà, lei, Uhura, non aveva mai amato nessuno, anche se a volte si accorgeva di soffrire per mancanza d’amore. Tuttavia, quando cantava, e spesso le canzoni erano canzoni d’amore, capiva perfettamente i sentimenti che stavano dietro all’ispirazione del compositore. Se non era innamorata, e se non lo era mai stata, non era perché fosse priva di sentimenti, ma perché forse, per usare un luogo comune, non aveva ancora incontrato l’uomo giusto. L’avrebbe mai incontrato? Chissà. Nonostante gli sforzi assidui di migliaia di uomini e donne, scienziati o maghi che fossero, il futuro restava ignoto.
Se il dovere non fosse stato d’intralcio, forse avrebbe potuto innamorarsi di Kirk. Una certa affinità tra loro due era apparsa evidente fin dal giorno in cui lei aveva messo piede sull’Enterprise. Ricordava ancora le prime parole scambiate con il Comandante. «Benvenuta a bordo, guardiamarina» aveva detto lui. «Grazie, signore» aveva risposto lei. «Uhura... un nome che ho già sentito.» «In swahili vuol dire “verità”.» «Avete un fratello maggiore?» «Forse vi riferite a mio padre.» «Astronauta?» «Sì.» «Uno dei migliori.» «E uno degli ultimi. È morto.» «Oh, mi spiace. Era un grand’uomo.» «È scomparso nello spazio due anni fa.» «Mi spiace davvero.»
Sì, suo padre era stato un astronauta, nome che avevano dato ai pochissimi che si erano lanciati all’esplorazione della Galassia molto prima che, fosse istituita la Flotta Spaziale, con le sue enormi astronavi e i suoi equipaggi numerosissimi. Uomini e donne solitari, che avevano visitato mondi inesplorati e portato a termine gli stessi compiti che adesso erano distribuiti fra centinaia di persone. Suo padre era stato uno degli ultimi. Un uomo che viveva fuori del tempo. Da piccola, lei lo aveva visto solo poche volte. Il mondo di suo padre era lo spazio, non la Terra. Lei era cresciuta a Dakar, una delle due capitali degli Stati Uniti d’Africa. Una bella città, bagnata dall’Atlantico. Una città africana, una città cosmopolita, su cui, però, pesava ancora il retaggio del colonialismo francese. Durante il diciannovesimo secolo, Dakar era stata una delle quattro città del Senegal che godevano di un posto di privilegio nell’impero francese. Alla fine, i suoi abitanti erano perfino diventati cittadini francesi di pieno diritto e avevano potuto scegliersi i rappresentanti da mandare alla Camera dei Deputati a Parigi. I Francesi avevano tentato una politica di assimilazione, che però era fallita miseramente, perché pochi africani desideravano essere relegati tra i Francesi di pelle nera. L’influenza francese aveva comunque lasciato il segno, non solo sulla città, ma anche su chi, come Uhura, era nato generazioni dopo la scomparsa del colonialismo. Uhura parlava correntemente il francese, proprio come lo swahili. Amava le canzoni francesi, le piacevano Proust e gli impressionisti. Come suo padre. E ricordava ancora le volte che lui aveva portato sua madre e lei a Parigi – giorni o settimane meravigliose – nei rari periodi che passava a terra. Quando aveva ricevuto la notizia della sua morte, erano tre anni che non lo vedeva. E l’ultima volta che lo aveva visto, era stato a Parigi. Lei, allora, aveva diciassette anni.
La famiglia del padre
Citazione:Aveva sette o otto anni, le tornò in mente, quando suo padre, un pomeriggio, era arrivato a Dakar e aveva detto a sua madre: — È tempo che veda dove siamo nati noi. — Poi si era messo al volante della jeep e l’aveva guidata per piste fangose fino nel folto della foresta, dove lei, finalmente, aveva guardato a occhi sgranati leoni, elefanti, giraffe, leopardi, un angolo d’Africa da favola, come un’illustrazione da libro per bambini. Che differenza dalla sfavillante città di Dakar, che conosceva tanto bene! E il villaggio dove erano arrivati si era rivelato poi ancora più sconcertante, un posto dove gli uomini giravano vestiti di stoffe multicolori e con strani cappelli a cilindro in testa, dove le donne portavano tuniche di cotone lunghe fino ai piedi, e molte erano anche velate, e i bambini se ne stavano per lo più nascosti. Suo padre, fermando la jeep, aveva detto: — Io sono nato in questo villaggio e prima dei diciassette anni non ho mai visto Dakar. — Le aveva fatto conoscere suo fratello, un uomo enorme dalle braccia nodose e la barbetta a punta, e sua sorella, una donna bella ma scarna, che ricordava una figura scolpita nel legno. Poi le aveva fatto conoscere suo zio, un uomo dalla faccia impassibile e gli occhi in una rete di rughe, e suo padre, tanto magro da parere uno spettro in mezzo a giganti. Per più di una settimana lei aveva vissuto con loro. Sua zia l’aveva portata con sé ogni giorno nei campi, e ogni sera erano tornate tutt’e due al crepuscolo, per preparare la cena che gli uomini consumavano in una capanna e le donne in un’altra.
Immersa nei ricordi, Uhura camminava riempiendosi i polmoni del dolce profumo dell’erba. Poi la foresta le apparve davanti, ma era diversa da come la ricordava. Dovevano esserci arrivati per un’altra strada.
Da bambina, dopo la visita alla famiglia del padre in quel villaggio, non aveva mai più avuto paura della foresta, mai più l’aveva considerata, come fa la gente di città, un posto pericoloso abitato da mostri, demoni e inquieti spiriti vaganti. Ma non c’era tornata una seconda volta. L’ultima sera, prima di partire, mentre era a letto sveglia, aveva sentito voci irose giungerle dalla capanna vicina. Aveva sentito suo padre gridare: — Sciocchi superstiziosi! La Galassia è il vero regno degli uomini. Ma non capite cos’è la Terra? La Terra è una miserabile e fetente latrina, piena di cadaveri troppo ignoranti persino per morire! — Poi, più tardi, l’aveva sentito gridare ancora: — Al diavolo Allah! Non ricominciamo con queste vecchie sciocchezze. Cosa me ne importa delle panzane di un cosiddetto profeta, responsabile dell’eccidio di decine di migliaia d’innocenti? Magari voi sarete contenti della vostra, ma io, dalla mia vita, pretendo qualcosa di più razionale. — Allora lei non aveva capito il significato di quelle parole.
(Più tardi aveva saputo che la famiglia di suo padre era di religione islamica, come la maggior parte dei cittadini del Senegal, e che suo padre, invece, disprezzava tutte le pratiche religiose. Perfino a Dakar, nei momenti della giornata in cui tutti gli altri pregavano, suo padre camminava in mezzo ai corpi inginocchiati come se nemmeno li vedesse, in atteggiamento di sfida.)
La mattina della partenza solo sua zia era venuta a salutarli, e aveva sussurrato qualcosa nell’orecchio del fratello. A Uhura bambina il fatto non era sembrato altro che un’ulteriore testimonianza dei misteri del mondo degli adulti. Solo in seguito aveva capito che quelle discussioni, udite confusamente durante la notte, avevano innalzato l’ultima barriera tra suo padre e la sua famiglia d’origine.