15-07-2012, 09:02 PM
Korinna Suder
Betazoid
Freddo, tristezza, dolore, più di quanto fosse umanamente possibile sopportare mi assalirono all'improvviso. Impiegai qualche istante a rendermi conto che quelle emozioni non mi appartenevano e l'istinto mi suggerì di chiudere rapidamente la mia mente, come avrei fatto in una stanza piena di gente. Dovetti fare appello a tutta la mia esperienza, tutte le ore passate ad esercitarmi, ma riuscii a controllare quell'impulso, permettendo a T'Dal di andare avanti, di mostrarmi la sua vita. All'inizio erano solo immagini confuse, scene che scorrevano troppo velocemente per poter essere afferrate. Era un tipo di telepatia molto diverso da quello a cui ero abituata, più profondo, più intimo. Mai avrei immaginato che una razza come i vulcaniani potesse nascondere una simile gamma di emozioni a tal punto che perfino io riuscivo a percepirne solo una debole eco. Mi si strinse il cuore nel vedere la freddezza di quella famiglia; qualcosa tentava di convincermi che era giusto così, che mostrare emozioni era sbagliato, pericoloso... ma non mi lasciai tentare: abbracciai quella giovane T'Dal. Sapeva che suo fratello e suo padre le volevano bene e cercai di falsare il suo ricordo, dando forza a quella convinzione perché riuscisse ad aggrapparvisi, perché capisse che quello che aveva fatto per loro era sufficiente e riuscisse finalmente a lasciarli andare. Per un attimo mi sentii persa: insoddisfazione, paura... era come camminare un un edificio pericolante, volevo aiutarla, ma non sapevo da che parte cominciare. Il Ponn Farr che tanto odiava... e anche qui controllo, sensi di colpa. Fui tentata di mettere mano a quel ricordo, ma qualcosa mi suggerì che non me l'avrebbe mai perdonato. Più mi addentravo nei suoi ricordi più mi rendevo conto di quanto fosse orgogliosa, di come volesse... e potesse... affrontare tutto ciò che avevo visto. Lasciai quel mio pensiero accanto alle sue insicurezze, in modo che se ne ricordasse ogni volta. Nascondendosi dietro alla sua logica, se preferiva.
"Se ha bisogno di me, sa dove trovarmi, T'Dal" concluse il professore di medicina. Ancora freddo, paura, silenzio. Avevo ormai capito che quello era il suo modo per affrontare le cose... ma forse potevo farle capire che non era l'unico modo. Mi accorsi che mi cercava e la accolsi, lasciandole sfogliare le pagine della mia vita: un'immagine della casa di famiglia, immersa nel verde. I fiori colorati del giardino, i semi che raccoglievo e curavo con pazienza, la magia di veder sbucare prima un germoglio, poi una piantina. La mia piantina... e mia madre al mio fianco, pronta ad entusiasmarsi come se quella fosse stata la prima piantina che vedeva nascere in vita sua. Mio padre assente per lavoro, il vuoto che aveva lasciato in casa e l'attesa del suo ritorno: la mamma intenta a cucinare e io e i miei fratelli impegnati in improbabili cartelli di bentornato, disegnati con i colori che sporcavano mani e tavolo. Una gita al museo con papà, che sapeva tutto e ci raccontava le strane usanze di alieni dai volti strani. Alcuni mettevano un po' paura, ma papà ci spiegava come riusciva a fare andare d'accordo tutti. L'ammirazione per mio padre, i suoi racconti su quella grande famiglia chiamata "Federazione", le sue speranze, i miei sogni, il desiderio di diventare come lui, il test per entrare all'accademia... le prime delusioni.
"Puoi ritentare l'anno prossimo" disse mio padre, sedendosi accanto a me sulla panca in veranda. Scossi la testa: "non credo di volerlo" risposi, delusa. Era una vita che sognavo di entrare all'accademia. L'avevo immaginata come un posto pieno di gente curiosa, generosa... e l'avevo scoperta un posto pieno di gente maleducata, falsa e ambiziosa... ma la cosa che più mi aveva terrorizzata era quel senso di insoddisfazione che avevo percepito un po' dovunque. Come poteva mio padre lavorare con gente del genere e considerarlo una cosa meravigliosa? Lo sentii sorridere e ne ricercai la ragione tra i suoi pensieri: "viviamo in un universo pieno di forme di vita, alcune culture non sono mai riuscito ad accettarle, ma tutte mi hanno insegnato qualcosa. Devi capire se è quello che vuoi. Se deciderai di entrare all'accademia dovrai confrontarti con culture diverse, imparare a convivere con loro... non sarà facile, ma saremo al tuo fianco. E ci saremo anche se decidessi di rimanere qui. Potresti diventare una linguista, entrare all'universitò di Betazed... che ne dici?" mi rispose telepaticamente. Appoggiai la schiena contro il muro di casa, osservando il sole tramontare. "Credo che l'accademia sarà una gran bella avventura" risposi, pensandolo davvero... e nonostante tutto... sì. Lo era stata. Forse era proprio questa la ragione per cui ora, lasciare tutto, era tanto difficile...
"Se ha bisogno di me, sa dove trovarmi, T'Dal" concluse il professore di medicina. Ancora freddo, paura, silenzio. Avevo ormai capito che quello era il suo modo per affrontare le cose... ma forse potevo farle capire che non era l'unico modo. Mi accorsi che mi cercava e la accolsi, lasciandole sfogliare le pagine della mia vita: un'immagine della casa di famiglia, immersa nel verde. I fiori colorati del giardino, i semi che raccoglievo e curavo con pazienza, la magia di veder sbucare prima un germoglio, poi una piantina. La mia piantina... e mia madre al mio fianco, pronta ad entusiasmarsi come se quella fosse stata la prima piantina che vedeva nascere in vita sua. Mio padre assente per lavoro, il vuoto che aveva lasciato in casa e l'attesa del suo ritorno: la mamma intenta a cucinare e io e i miei fratelli impegnati in improbabili cartelli di bentornato, disegnati con i colori che sporcavano mani e tavolo. Una gita al museo con papà, che sapeva tutto e ci raccontava le strane usanze di alieni dai volti strani. Alcuni mettevano un po' paura, ma papà ci spiegava come riusciva a fare andare d'accordo tutti. L'ammirazione per mio padre, i suoi racconti su quella grande famiglia chiamata "Federazione", le sue speranze, i miei sogni, il desiderio di diventare come lui, il test per entrare all'accademia... le prime delusioni.
"Puoi ritentare l'anno prossimo" disse mio padre, sedendosi accanto a me sulla panca in veranda. Scossi la testa: "non credo di volerlo" risposi, delusa. Era una vita che sognavo di entrare all'accademia. L'avevo immaginata come un posto pieno di gente curiosa, generosa... e l'avevo scoperta un posto pieno di gente maleducata, falsa e ambiziosa... ma la cosa che più mi aveva terrorizzata era quel senso di insoddisfazione che avevo percepito un po' dovunque. Come poteva mio padre lavorare con gente del genere e considerarlo una cosa meravigliosa? Lo sentii sorridere e ne ricercai la ragione tra i suoi pensieri: "viviamo in un universo pieno di forme di vita, alcune culture non sono mai riuscito ad accettarle, ma tutte mi hanno insegnato qualcosa. Devi capire se è quello che vuoi. Se deciderai di entrare all'accademia dovrai confrontarti con culture diverse, imparare a convivere con loro... non sarà facile, ma saremo al tuo fianco. E ci saremo anche se decidessi di rimanere qui. Potresti diventare una linguista, entrare all'universitò di Betazed... che ne dici?" mi rispose telepaticamente. Appoggiai la schiena contro il muro di casa, osservando il sole tramontare. "Credo che l'accademia sarà una gran bella avventura" risposi, pensandolo davvero... e nonostante tutto... sì. Lo era stata. Forse era proprio questa la ragione per cui ora, lasciare tutto, era tanto difficile...