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USS Eternity Off-duty
#1

T'Kaat

Vulcan/Q

{ Ponte Due | Palestra } Se si vuole tener conto delle statistiche, scoprirete che l’ufficiale medio della Flotta Stellare dichiara di considerare il Ponte Due la parte migliore della nave. Il motivo? Beh, ma naturalmente perché quella è di regola la posizione dei saloni di riposo. E di riposo gli esseri umani ne hanno bisogno fin troppo, o per lo meno pretendono di averne bisogno, secondo il cinico giudizio di colei che vi è appena passata oltre per dirigersi verso una sala di gran lunga più confacente alle proprie necessità: la palestra per gli allenamenti.
“Per quale motivo stabiliscono turni così corti, senza tenere conto delle possibilità di resa individuali dei membri dell’equipaggio? È estremamente improduttivo, ed ovviamente illogico. Elogio della pigrizia.” Ecco un brandello del monologo mentale che avviene mentre la nostra (parzialmente) vulcaniana attraversa a testa alta l’entrata di quello che, ad un rapido esame, rivela d’essere un luogo completamente vuoto. Il suo obliquo sopracciglio sinistro si solleva appena, unica manifestazione esterna del suo stizzito disappunto.
Con le mani dietro la schiena, si dirige verso la parete sulla quale si trovano esposti tutti i vari strumenti di supporto, e dopo una manciata di secondi ha in mano tutto ciò di cui ha bisogno: un bastone di legno. Ora può posizionarsi al centro della sala, di fronte allo specchio nel quale può trovare un ulteriore mezzo di controllo dei propri movimenti.
L’immagine riflessa mostra un corpo che all’apparenza non si giudicherebbe affatto adatto ad un serio combattimento. Oltre la superficiale impressione di gracilità, tuttavia, la figura si presenta piuttosto come slanciata e tonica, e la muscolatura delicatamente ma perfettamente definita è intuibile sotto il sottile velo di stoffa sintetica grigio-blu che costituisce la sua aderente tuta andoriana, perfetta per gli allenamenti perché quasi impercettibile al contatto con la pelle, ma strategicamente rinforzata sui lati delle gambe e delle braccia con delle sottilissime placche di un metallo dall’elevatissimo peso specifico.
La neo Guardiamarina chiude gli occhi e controlla la respirazione: se non può né occuparsi del timone, né gironzolare intorno alla stazione scientifica della Plancia, allora... i suoi tendini scattano all’improvviso, dando inizio a fluidi movimenti del capo sottile, sormontato da un alto chignon. Lentamente, i movimenti si propagano al resto del corpo, cominciando a coinvolgere in sequenza le spalle, le braccia, il busto, le gambe.
#2

Salkhar

Vulcan/Romulan

Ponte 2: Palestra


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Era già trascorso diverso tempo da quando il giovane Ufficiale Scientifico della U.S.S. Eternity aveva cominciato a sgambettare sul nastro di uno dei tapirulan disponibili nella sala degli allenamenti, quella allocata in una delle sezioni di ristoro del Ponte 2. Non aveva particolarmente gradito, il mezosangue, il fatto di essere stato congedato così presto dalla sua mansione di osservatore in Plancia di Comando, dopo quelle che, a parer suo, erano state solo poche ore di servizio, e già a poca distanza dall’imbarco aveva seriamente rischiato di compromettere la sua posizione agli occhi del Capitano. Era ovviamente al corrente che ci fossero turni da rispettare, e con rigore professionale, ma aveva comunque creduto che valesse la pena rischiare di prendersi una bella nota di demerito per aperta contestazione già al primo giorno di servizio, piuttosto che tacere. Quella di protestare una decisione ogni volta che lo ritenesse razionalmente opportuno era un’abitudine che si portava dietro da tutta una vita, anche se, alla fine, sotto ordine insistente, era si era sempre visto costretto a fare un passo indietro. Non che si fosse trattato del capriccio di un adolescente determinato all’idea di voler fare colpo a tutti i costi sui suoi superiori. La richiesta di potersene restare al suo posto era stata solo frutto di una semplice constatazione logica che, evidentemente, i piani alti non avevano ritenuto necessario di tenere in considerazione: perché essere sostituito, pur non avendo alcun bisogno di riposare e pur potendo restare ancora a lungo in perfetta efficienza? In risposta, quella che aveva ricevuto era stata una gentile quanto categorica pacca sulla spalla, che aveva interpretato col significato alternativo di togliersi dalle scatole. Eppure, ancora adesso, continuava a persistere nella sua convinzione. Dèi dell’Olimpo, solo dall’alto dei cieli potevano sapere quanto il vulcaniano potesse diventare ostinato, ogni volta che credesse di avere la ragione dalla propria! Non gli sarebbero bastate altre due ore di corsa sul tappeto a convincerlo che, ormai, era inutile continuare ad insistere nel rimuginarci sopra, dal momento che la decisione era stata presa e lui non poteva farci proprio più niente. Dovette, forse, convincersene nel momento in cui premette il pulsante di spegnimento dell’attrezzo, che rallentò con un mesto fruscio, prima di arrestarsi del tutto. Ma non poté, comunque, sentirlo. La musica che teneva sparata al massimo volume negli auricolari gli impediva di percepire altri suoni che non fossero le note pesanti della chitarra elettrica, ritmate da un costante battere di piatti e tamburi in sottofondo. Per essere un pacifico vulcaniano, votato esclusivamente al beneficio della Logica, sembrava quasi uno scherzo di cattivo gusto che potesse essere tanto affascinato dalla musica rock. In particolare, era il genere metal che prediligeva ed era proprio una vecchia canzone composta in quello stile che era intento ad ascoltare.
“Oh, I don’t think you trust in my self-righteous suicide…” Rimbombavano quelle parole nella testa, mentre scendeva dal tapirulan e si passava la mano tra i capelli, corvini ed indomati, in un inutile tentativo di portarli all’indietro. “I cry when angels deserve to die…” Si tirò su la lampo della felpa azzura, semplice, che riportava all’altezza del petto, sulla sinistra, il simbolo della Flotta Stellare, quello destinato alla Sezione Scientifica, poi prese una lunga sorsata d’acqua dalla bottiglietta che s’era portato dietro dal suo alloggio. Di asciugamani non ne ebbe bisogno. Era caratteristica del suo retaggio etnico che il calore corporeo non si disperdesse col sudore, ma tramite la traspirazione della pelle e, a dirla realmente tutta, per le temperature a cui era abituato sul suo pianeta natale, lì sull’Eternity faceva pure fin troppo fresco, per i suoi gusti.
“Father! Mother! Father! Brother! Fucking father!” Le urla gli perforavano quasi i timpani, eppure dall’espressione, neutra ed indecifrabile, non sembrava neppure gli stesse prestando particolare attenzione. In effetti, non si era mai sforzato troppo a cercare di comprendere il bisogno di manifestare emotività di certi testi. Non ne capiva il senso e, volendo essere sinceri, se gli autori non fossero appartenuti alla razza umana, avrebbe ritenuto addirittura sdegnoso da parte loro dimostrarsi così apertamente sentimentali. Chissà quand’è che aveva cominciato a pensarla esattamente come T’maekh e a convincersene pure in maniera irrimediabile. Forse era stato troppo dipendente da Sorak, perché lui era sempre stato quello più integerrimo dei due, al contrario suo, che s’era sempre dimostrato l’anello debole. Talmente debole da avere un assoluto quanto inconscio bisogno di quella stupida musica per reprimere tutti i desideri repressi.
Si sfilò le cuffie dai condotti uditivi, mentre si dirigeva verso l’uscita. L’idea era quella di mangiare qualcosa e poi tornarsene in camera dove, in tutta probabilità, si sarebbe soffermato a meditare almeno per un po’. Ma tentennò sull’uscio quando il sensibile orecchio catturò mesti rumori in lontananza, che somigliavano a colpi secchi sferrati nell’aria. Un sopracciglio si sollevò nel realizzare solo in quel momento di non essere stato solo per tutto quel tempo, mentre la sua eccessiva e talvolta problematica curiosità lo spingeva ad indietreggiare in quella direzione e ad affacciarsi all'entrata della sala adiacente. Non si sorprese minimamente di trovarsi a pochi metri di distanza il Timoniere dell'Eternity, che aveva modo di incrociare in Plancia quella stessa mattina. Quello che più lo lasciava perplesso era, invece, che lei fosse vulcaniana. Proprio come lui. E di vulcaniani – quelli che erano rimasti – all’Accademia della Flotta Stellare, di quei tempi, non se ne vedevano poi molti.
“Guardimarina…” Attirò la sua attenzione, senza troppi preamboli. Non poteva sbagliarsi, era sicuro che il Capitano si fosse rivolto a lei con quell’appellativo, nell’arco della giornata. “Vedo che anche Lei ha pensato bene di tenersi in esercizio.” La sua fu niente più che una constatazione dovuta ad un dato di fatto. E, se era vulcaniana almeno la metà di quanto dava a vedere, molto probabilmente era lì per le sue stesse ragioni: meglio tenersi impegnati in qualcosa di costruttivo, piuttosto che stare fermi a far nulla.
"Un comportamento davvero encomiabile, il Suo."
#3

T'Kaat

Vulcan/Q

I suoi esercizi di riscaldamento stanno ormai volgendo al termine. Mentre il bastone di legno fende l’aria dall’alto verso il basso seguendo il braccio sinistro, il braccio destro è allungato verso l’esterno, con le dita della mano piegate in una forma ben definita. La gamba sinistra si flette appena per fornire lo slancio necessario alla compagna, che in quello che si può chiamare idiomaticamente “un battito di ciglio” compie un movimento ampio e circolare: si solleva prima in avanti, finché il polpaccio non sfiora la punta del naso, ruota poi verso l’esterno, scendendo, con la punta del piede che si trova ora all’altezza della spalle, e conclude il ciclo come un colpo di frusta all’indietro, piegandosi e sollevandosi fino a quando il collo del piede perfettamente arcuato non raggiunge la testa leggermente piegata all’indietro. La mossa, che avrebbe benissimo potuto fare invidia alla maggior parte dei danzatori professionisti, appartiene alla tecnica base del Puk-yumasu’es. In altre parole, performata in combattimento, con la giusta applicazione di forza, concentrazione ed energia, le avrebbe permesso di tenere sotto controllo nove dodicesimi dello spazio intorno a sé.
Per puro piacere, permane in quella posizione ancora qualche istante. Chiude gli occhi: ama percepire il proprio controllo sulla tensione dei muscoli. Il suo battito cardiaco è accelerato appena, e l’unico indizio esterno dell’enorme sforzo fisico appena compiuto, visibile soltanto per un osservatore competente e attento, è il colorito appena appena più verde acquisito dalla sua pelle pallidissima a causa della dilatazione dei vasi sanguigni.
A quel punto, il suo perspicace orecchio è stato già in grado di trasmetterle il suono di leggeri passi, di una porta aperta, di passi più vicini, tanto che nulla è la sua sorpresa nell’udire, ora, anche una voce a lei indirizzata. Apre gli occhi, e lentamente abbassa la gamba e le braccia, recuperando la normale postura eretta e flettendosi un momento sulle ginocchia per posare il bastone con minimo rumore prima di voltarsi e sostare di fronte all’unica persona la cui presenza in quel posto non può sorprenderla.
Per alcuni istanti lo osserva e basta. Era rimasta sinceramente sorpresa per la presenza di un altro vulcaniano a bordo, e doveva ancora decidere se di trattava di una sorpresa positiva o negativa. Certo, trovava buffo il fatto di essere fondamentalmente scappata dall’ambiente eccessivamente pedante di Nuovo Vulcano per ritrovarsi sotto gli ordini di qualcuno che, per quello che ne sapeva, poteva essere fatto esattamente della stessa pasta. Per di più, proprio lui era a capo della sezione scientifica, e questo ne faceva colui al quale aveva “promesso” a Spock di “restare appiccicata”.
« Comandante. », pronuncia infine, a mo’ di saluto, sollevando la mano destra nel ta’al, per poi portarla a ricongiungersi con la mancina dietro la schiena.
« Sì, signore. Cos’altro può fare per divertirsi un Sottoufficiale che ha ancora poca dimestichezza con la nave, quando viene cacciato dalla plancia? ».
Ora, bisogna notare il livello di studio psicologico nella scelta dei termini di questa domanda. Uno: correttezza di linguaggio, tono e postura formali. Due: uso del termine “divertirsi”, la reazione al quale avrebbe determinato il 60% del suo primo giudizio sull’ufficiale. Tre: il ricorso all’espressione “cacciato dalla plancia” per rendere chiara la sua disapprovazione dell’organizzazione dei turni.
#4

Salkhar

Vulcan/Romulan

Fu impossibile per il mezzosangue non notare la reazione flemmatica della sua giovane consanguinea, che interpretò come l’esternazione di una calma logica e controllata. Quella calma di chi non sa essere avventato, l’esame attento di un predatore che sa bene cosa cercare, in chi ha di fronte, e soprattutto come cercarlo. Ma quello poteva essere benissimo l’inganno dell’apparenza. Sì, era indubbiamente una vulcaniana, la donna acerba che gli teneva gli occhi puntati addosso, immobile al centro della sala, ma poteva essere, questo, un motivo sufficiente a pretendere di poter sapere cosa esattamente le passasse per la testa? No, Salkhar era abbastanza raziocinante da comprendere che poteva esserci nascosto altro oltre la veste della sembianza, ma, soprattutto, come avrebbe potuto essere tanto superficiale proprio lui, che di dramma interiore aveva anche fin troppa esperienza? T’maekh… suo padre, un mezzo romulano, figlio di un V’tosh ka’tur, un traditore, che per tutta la vita aveva preteso di essere un seguace di Surak, cos’altro poteva essere se un uomo distrutto da un infinito vortice di caos ed emozioni, di cui per tutta la vita non era mai riuscito a liberarsi? E Sorak? Sorak, che esattamente come lui aveva la sue debolezza e Salkhar questo lo sapeva bene. Era da tutta una vita che lo sapeva, perché tra loro era diverso da com’era con gli altri vulcaniani, lo era sempre stato. Sorak era più di un fratello, per lui: era la sua metà inseparabile, inscindibile nel pensiero e nel katra. Come una mente che si fosse scissa in due corpi alla nascita e che lui poteva sentire, sentire dentro in ogni istante della sua vita, ad ogni battito e ogni respiro, anche quando erano dannatamente troppo distanti. Certo, Sorak possedeva qualcosa che a lui, invece, era sempre mancato. Dividevano lo stesso passato, provavano la stessa… la stessa… - rabbia? - per quel sangue romulano che insieme condividevano e che era stato, per loro, continua fonte di rovina e dannazione. Eppure… eppure Sorak ci riusciva, riusciva a sopprimere tutto questo, ad accettare, e, in qualche modo, a nascondere tutto dentro di sé, nei recessi, e gli impediva di tornare a galla, mentre lui… beh, lui era scappato. Scappato da Nuovo Vulcano, da una vita che non era più la sua, per inseguire una storia che non poteva dimenticare e lasciarsi alle spalle come aveva fatto Sorak, perché c’erano ancora troppe cose che doveva capire. In un certo senso, la Flotta Stellare lo aveva raccolto, come un piccolo orfano abbandonato al proprio destino, e lo aveva salvato: gli aveva dato una nuova ragione di esistere, permettendogli di ripartire esattamente dal punto in cui aveva lasciato.
Dopo attimi trascorsi dell più assoluto silenzio, infine si mosse, il giovane Sottotenente, e gli rivolse la parola. Al suo saluto, anche la mancina del mezzosangue si sollevò, le dita già divaricate nel ta’al, che accompagnò con un appena accennato inchino del capo. Poi si decise, finalmente, a varcare la soglia della sala. Ma non le si avvicinò di molto. Anzi, non le si avvicinò affatto. Colse, invece, occasione per poggiarsi alla parete adiacente all’ingresso, mentre le mani, fasciate dai soliti guanti bianchi, andavano ad infilarsi nelle tasche della felpa, poste anteriormente. A vederlo in quella postura sciatta e scomposta, che stonava nettamente col formale distacco che tra loro aveva creato l’atteggiamento del Guardiamarina, non dava l’impressione di essere né un vulcaniano, né un ufficiale del suo attuale rango. Sembrava solo un comune ragazzino dalla poca importanza. Persino il suo viso neutrale, colorato di un verde pallido all’altezza delle guance, lascito della precedente corsa, appariva meno freddo ed inflessibile del solito, considerato nell’insieme.
Divertirsi, dice?” Ripeté, retorico. Poi parve mordersi il labbro inferiore in segno riflessione. “Lei si esprime in termini notevolmente umani, Guardiamarina. Anche cacciare. Sembra quasi sentirsene offesa.” Continuò, in quella che suonò come niente più che un’osservazione. “E’ insolito per un vulcaniano ricorrere a questo genere di lessicologia.” Aggiunse, alla nota precedente, delineandone, ora, con lo sguardo l’intera figura composta, come se quest’ultima grossolana analisi visiva avesse potuto fornirgli una qualche risposta d'anticipo su quanto stava per chiederle. “Mi dica, si tratta di semplice retorica o la Sua scelta rimanda a qualche ragione particolare che, al momento, mi sfugge?” Da come poneva la questione, veniva a somigliare ad una specie di improvvisata analisi di laboratorio dagli scopi prettamente didattici. Ma non si soffermò solo al suo modo di esprimersi. Questa volta si staccò dalla parete e qualche passo in avanti lo mosse, ma si arrestò mentre era ancora piuttosto lontano. “Mi permetta, comunque, di aderire al Suo disappunto. Concordo con Lei riguardo alla maldistribuzione dei periodi di servizio. Oserei definirla controproducente, se non addirittura deleteria.”
#5

T'Kaat

Vulcan/Q

Ancora non si muove, segue il suo interlocutore con lo sguardo mentre avanza di poco e si lascia andare contro la parete. Anche lui si sta prendendo il suo tempo per rispondere, cosa che lei trova decisamente di suo gusto. Di suo gusto... forse c’è qualcos’altro che considera tale, mentre osserva la figura di quello che, per qualche momento, appare essere semplicemente un giovane dall’aria... interessante. Una mera constatazione estetica, perfino semi-inconscia, che si unisce però a quell’eccitazione tutta dello spirito generata da questa sorta di analisi reciproca appena cominciata. Il risultato è un semplice movimento sul suo viso: le piccole labbra carnose si curvano appena da un lato in quello che più che nella categoria di ‘sorriso’, si potrebbe inserire in quella di ‘sogghigno’. La neutra placidità che dominava prima il suo volto viene rimpiazzata da una generale espressione di vivacità, che ha perfino qualcosa di birichino, proprio come se si stesse misurando con l’idea di un gioco particolarmente allettante. E tutto questo accade proprio mentre il Comandante Salkhar fa le sue osservazioni sul lessico “poco vulcaniano” usato da lei poco prima. L’ufficiale fa ancora qualche passo, tenendosi però sempre ad una certa distanza. Tocca a lei, ora, occuparsi di accorciarla ancora un poco, spostandosi finalmente dal centro della sala con dei piccoli movimenti che hanno qualcosa di felino - d’altronde, è un dato generalmente accettato quello secondo cui un animale e il suo padrone tendono ad assomigliarsi, e in alcuni momenti in lei sembra esserci davvero qualcosa di quel suo gatto betazoide.
« Stiamo usando il linguaggio degli esseri umani », proferisce in risposta, con lo stesso tono calmo e formale di prima. In fin dei conti, quello che sta esponendo continua ad essere un discorso logico. « Di conseguenza, siamo costretti ad approssimare le nostre intenzioni ai loro concetti. Si renderà conto, di esser lei stesso appena ricorso all’uso del termine “disappunto”. Posso assicurarle che l’idea con cui io riempio il mio concetto di ‘divertimento’ è tanto lontana da quella umana quanto lo è la sua rispetto al loro ‘disappunto’. »
O forse no, non poi così lontana’, aggiunge, ma questo solo tra sé e sé.
« Quanto al perché della scelta dei termini, la sua è una domanda retorica: è ovvio e posso benissimo dedurre che lei lo ha già colto. »
In questa pausa nel discorso, si sofferma a ponderare sulla necessità di chiedere il permesso di parlare liberamente o meno, decidendo quasi istantaneamente che sarebbe solo ridondante, dato che nessuno dei due al momento è in servizio e il loro discorso non coinvolge argomenti inerenti ai loro doveri all’interno della Flotta.
« La stavo studiando e mettendo alla prova, esattamente come lei sta facendo con me. Cosa per la quale, a proposito, voglio dirle che le sono estremamente grata, perché, vede... » ormai è entrata proprio nel vivo della questione, e fornisce tutte le sue spiegazioni da quel punto ad un paio di metri dall’altro, di nuovo perfettamente immobile, con le gambe appena incrociate e le mani dietro la schiena. « ...è insolito per un vulcaniano non liquidare immediatamente come inappropriato il mio discorso di poco fa. I nostri consanguinei, davvero, tendono ad essere ben poco flessibili al riguardo. Lei, invece, ha indagato. Ora, se il mio presupposto di ragionamento è effettivamente corretto, ne seguirebbe logicamente che in lei non scorre esclusivamente sangue vulcaniano - o, in alternativa, nella sua mente non ci sono solo concetti puramente vulcaniani, il che potrebbe benissimo essere la stessa cosa. »
Chiuso il ragionamento, un sopracciglio scatta in su, indagatore, in attesa della reazione altrui, nonché della conferma o meno del proprio postulato.
#6

Salkhar

Vulcan/Romulan

Neppure per un attimo distolse lo sguardo da quello della giovane donna, che ancora continuava a persistere in un’immota, quasi solenne, staticità formale. Ma la sua era tutta una tattica. Appariva evidente – o almeno questo era quanto gli aveva dato modo di intendere – che non volesse scoprirsi da subito, che volesse prendere del tempo per analizzare la situazione, e proprio non poteva darle torto: aveva bisogno di tastare il terreno per capire fino a quanto le fosse concesso di spingersi oltre. Stava pur sempre rivolgendosi ad un suo superiore, dal quale non poteva sapere di aver già ricevuto un primo tacito assenso. Opinione che il vulcaniano non modificò neppure quando vide apparire su quel viso quasi infantile una curva impercettibile, che per poco non gli era sfuggita. Non era ancora diventato troppo abile nel percepire gli stati emozionali, eppure qualcosa gli suggeriva di avere appena assistito ad un evento che solo in seguito avrebbe determinato come irrazionale. Irrazionale per la natura di colei che si trovava di fronte. Perché aveva sorriso – era un sorriso, quello? Non era, quella, una debolezza umana? Lo trovava insolito, ma, allo stesso tempo, inspiegabilmente confortante. Forse era questo ad averlo maggiormente colpito, nel giovane Timoniere: in un certo senso, erano simili.
Stavolta fu lui a restarsene fermo, mentre lei, invece, accorciava ancora le distanze. La guardava avvicinarsi con movenze sontuose, eleganti, silenziose, che, allo stesso tempo, apparivano ai suoi occhi così inspiegabili, caotiche. Non si rese neppure conto di aver abbassato lo sguardo per perlustrare il restante di lei, nell’interezza, mentre il fiato, per un attimo, gli era addirittura mancato.
“Lei parla di approssimazione, eppure devo confessarLe che mi ha dato un’impressione diversa. Di non essere del tutto sincera.” A non convincerlo era stata la noncuranza che aveva usato nel rivolgere quel sentimentalismo a se stessa. Fin troppa per un vulcaniano che tenti di esprimersi in termini umani. Chiunque altro, al suo posto, avrebbe tenuto a farlo presente e, invece, lei aveva volontariamente omesso di apporre una specifica riguardo ad un piccolo particolare che qualsiasi vulcaniano devoto alla dottrina di Surak avrebbe considerato sdegnoso, se non addirittura ingiurioso. “Mi spinge a credere di essere guidata dalla Logica molto meno di quanto Lei voglia dare a vedere.” Si interruppe per qualche breve istante e, quando sollevò le sopracciglia e chinò leggermente il capo in avanti, sembrò assumere un’aria particolarmente presuntuosa, forse un tantino superba. “Anche perché non mi era mai capitato, prima d’ora, di vedere qualcuno della nostra gente sorridere a quel modo così – mi permetta un artificio retorico – sinistro.” Erano parole calme, meste, le sue, nella quali non si avvertiva alcun segno di ammonimento. Perché lui non era lì per giudicarla, no. Quello che voleva era semplicemente cercare di capire, di capire cos’era che la rendeva così insolitamente diversa.
“Quanto al mio ‘disappunto’, si sbaglia, Guardiamarina.” Proseguì ancora, ma questa volta non se ne restò al suo posto. Avanzò, invece, di molti passi, il mento appena sollevato, arrivando ad affiancarla e proseguendo fino a ritrovarsene alle spalle. “Quello era proprio il concetto che intendevo esprimere.” Si arrestò, a questo punto, sfilandosi poi le mani dalle tasche solo per fare scrocchiare le giunture delle dita in un gesto del tutto informale che, in un certo senso, poteva essere interpretato come un invito nei confronti della giovane a distendersi. D’altronde, quella dove si trovavano non era mica la Plancia di Comando. “Potrà ritenerlo poco logico da parte mia, ma devo ammettere che questi sono i fatti.” La breve pausa che intercorse gli servì per umettarsi il labbro inferiore con le estremità degli incisivi. “Come certamente saprà, il termine ‘disappunto’ è sinonimo di ‘contrarietà’ e non Le nascondo che gli ordini del Capitano mi trovano in disaccordo. Ritengo estremamente deprecabile la decisione di congedare ufficiali perfettamente efficienti nel giro di poche ore per motivazioni esclusivamente logistiche. Ma sono costretto ad attenermi agli ordini.” Il tono piatto con cui si espresse svuotava le parole di ogni connotato emozionale – repressione, frustrazione - e quello che poteva essere un piccolo sfogo assunse, al contrario, i colori di una semplice confidenza. “Ciononostante, la ritengo una misura illogica ed inadeguata.” Commentò a conclusione, tornando poi a voltarsi quando fu della giovane donna il turno di parlare. Restò in silenzio per qualche momento, anche quando lei ebbe terminato il suo ragionamento. E ne fu… sorpreso. Non aveva mai dato motivo a nessuno di sospettare della sua natura ambigua, di quella parte oscura che in lui albergava e che doveva sopprimere ad ogni costo, e, invece, lei… come aveva fatto a capirlo? Dove diavolo era caduto in fallo? Dovette far ricorso a tutta la sua forza di volontà per non dare a vedere che ne fosse rimasto turbato. Perché lui non poteva assolutamente esserlo.
“Un’acuta osservazione, la Sua, Guardiamarina.” Commentò e fu in quel momento che se ne convinse con fermezza: T’Kaat non era come gli altri vulcaniani. Non lo era perché lei aveva saputo vedere qualcosa che i loro consanguinei non avrebbero mai e poi mai colto tra le righe, per il semplice fatto che loro non sapevano cosa volesse dire essere diversi. “Devo confessarLe di non essere interamente vulcaniano. Non è un segreto che mio padre avesse origini romulane…” ma era ovvio che lei non potesse esserne a conoscenza. “Anche se - voglio precisarlo - questo non mi rende particolarmente diverso dai nostri consanguinei.” Forse aveva parlato troppo ed era stato appena più duro, nel dirlo. Così non aveva fatto altro che puntarsi il dito contro da solo e, tuttavia, non aveva potuto farne a meno. Perché ne era davvero convinto e non avrebbe ammesso obiezioni.
“E Lei, invece?” Da come pose la domanda, pareva dare per scontato di trovarsi di fronte ad un altro misto fritto.
#7

T'Kaat

Vulcan/Q

Dovrebbe ormai essere evidente che quello che si muove dentro una scorza dai caratteri di specie definiti ed inconfondibili è uno spirito estremamente versatile. Date a questo spirito qualcosa di nuovo, intrigante e stuzzicante, e assumerà presto le sembianze di un folletto sbarazzino. È giovane, è curioso, conosce la disciplina ma... fino a che punto degli insegnamenti arrivati dopo possono avere potere su un insieme di istinti in origine lasciati liberi nel modo più assoluto? Colei di cui parliamo, in fin dei conti, è la prima figlia, dai dubbi natali, di una comunità di dissidenti, su quello che è probabilmente il pianeta più disinibito della galassia. Insomma, tutta questa introduzione per render chiaro quello che in questo contesto può essere generato quando uno sguardo diverso proviene da qualcuno che già inconsciamente abbiamo cominciato ad apprezzare.
Ha cominciato a muoversi con naturalezza, ma il suo corpo si è sentito osservato, e ha reagito aumentando il grado della sua già caratteristica sinuosità. Se fosse stato più maturo, probabilmente avrebbe aspirato alla vera e propria sensualità.
Per ora, in altre parole, è come se ci fosse un’interferenza nell’unità di mente e corpo. Un’interferenza umana, troppo umana - o, per essere più precisi, umanoide, troppo umanoide.
In un primo momento, è ancora la mente a detenere la supremazia, e la ragazza ascolta, immobile ed in silenzio, ascolta tutto: l’osservazione sulla logica, quella sul suo sorriso, il discorso sui turni e il Capitano. Quando il Comandante la supera, volta appena il capo, guardandolo con la coda dell’occhio. Mentre lui fa scattare le ossa delle dita, poi, finalmente scioglie le proprie dal loro posto dietro la schiena, lasciando andare le braccia lungo i fianchi. Lui si volta, lei si volta. Ora sono vicini, quasi l’uno di fronte all’altro, lei un po’ più sulla sua sinistra. Ed è questo il frangente in cui è lo spirito animale ad assumere per un attimo il controllo. Non che possa fare molto, da solo, non essendo ancora perfettamente sviluppate le condizioni fisiologiche che la natura ha predisposto per il suo completo e maturo manifestarsi, ma il volto della ragazza è rivolto verso il basso e la bocca, appena dischiusa, si occupa momentaneamente della respirazione, diventando presto umida, mentre gli occhi sembrano impegnati nell’esame delle mani di questo nuovo essere.
« Il suo nome è Salkhar, vero? » Un pensiero che ha deciso da solo di diventare sussurro.
« Comandante, Comandante Salkhar. » Improvviso, al punto da risultare quasi stridente sul principio, il suono della sua voce torna al volume e all’intonazione soliti. Il volto si solleva, gli occhi tornano a guardare gli occhi, le guance particolarmente tinte di verde sono l’unica cosa che non può tornare immediatamente immacolata. « Le esprimo la mia comprensione e il mio appoggio in merito a questa questione. Vedo anche che ha deciso di usare una via molto cauta. Senza dubbio, nella sua posizione potrebbe... » Un suggerimento, appena accennato e appena complice. Un incipit che, piccolo e lento, viene seminato da un discorso che rivendica con molta più forza di essere terminato. Il risultato è che il movimento precedente finisce troncato, e questo inizia in levare.
« Non posso darle ragione su un punto. “Questo non mi rende particolarmente diverso dai nostri consanguinei”, lei dice. Eppure io sono stata in grado di individuare la sua diversità grazie ad una domanda e ad una risposta. »
È tentata di interrompere qui il proprio parlare, meramente per osservare per bene l’effetto di queste poche parole ardite su colui che, nonostante tutto, aveva fatto ben intendere anche quanto ci tenesse a non essere particolarmente diverso.
La provocazione ormai è lanciata, un pungolo diretto in piena consapevolezza. Un pungolo che, però, è anche un dato di fatto meritevole di una spiegazione razionale.
« Non mi fraintenda: secondo i presupposti del mio ragionamento non ha alcuna importanza quali sono, in un individuo, gli elementi di mescolanza. La natura è intelligente, e la mescolanza produce risultati straordinari. Kol-Ut-Shan: infinita diversità in infinite combinazioni. I suoi schemi mentali sono troppo dinamici per essere frutto di una sola influenza. Lo consideri pure il mio postulato. »
Gli angoli della sua bocca si curvano questa volta entrambi, in maniera più delicata rispetto a prima, come se avessero appena deciso di dimostrare di saper anche non essere ‘sinistri’.
« Quanto a me... », sospira, solleva leggermente lo sguardo. Le sue dita si muovono, strofinandosi un po’ le une con le altre, come se ora non sapessero che farsene dell’esser lasciate lì lungo i fianchi. « Mia madre è sicuramente vulcaniana. Fa parte di una comunità che ha rigettato la dottrina di Surak e si è stabilita inizialmente su Delta IV, dove sono nata e ho speso gran parte dell’infanzia. Non ho idea, invece, di chi sia mio padre. In realtà, credo che nemmeno mia madre lo sappia. Ed il mio tutore su Nuovo Vulcano è mezzo umano. » Anche le sue ultime parole suonano particolarmente piatte, probabilmente perché sono sempre le stesse, ripetute tante volte.
Queste che vengono, invece, sembrano covare al proprio interno un particolare calore. Una confessione, per chiudere il cerchio, e tornare all’osservazione fatta poco prima dal giovane ufficiale: « Un individuo straordinario, l’Ambasciatore Spock. E mi ha insegnato che la logica... è solo l’anticamera della saggezza. »
#8

Salkhar

Vulcan/Romulan

Note di una vecchia canzone, come un’eco lontana, cominciarono a risuonargli nella testa. Frasi che riaffioravano scomposte, prive di qualsiasi criterio, si imposero al suo autocontrollo quando si voltò e gli occhi incrociarono quelli dell’altra.
“Poison…”
I movimenti di lei, anche quelli più impercettibili, come un gioco ammaliante e pericoloso. Ogni piccola movenza riusciva a catturarne lo sguardo, a distrarlo.
“Your mouth, so hot…”
Le labbra di lei, semidischiuse in un respiro lieve e affannoso, così ipnotico. La conversazione era, ormai, diventata muta.
“Lips like venomous poison, burnin’ deep inside my veins…”
La linea del collo, libera dei lunghi capelli, vulnerabile. Il petto, scosso dall’aria che riempiva I polmoni. E poi…
“… but my senses tell me to stop…”
Solo la voce di lei poté riportarlo indietro, alla realtà, e fu in quello stesso momento che, disorientato, si rese conto di quel che stava accadendo nella sua mente. Sbatté le palpebre più volte, per tornare, repentino, a rivolgerle l’attenzione, ma non era sicuro di aver capito bene quanto avesse cercato di dirgli.
“…Cosa?” Seguì a quello che, poco prima, era stato niente più di un leggero sussurro e che lui, assorto in altri pensieri, non era riuscito ad afferrare del tutto. Ricollegò soltanto dopo essersi sentito chiamare.
“Sì.” Si affrettò a rispondere, nel mentre che provava a scacciare la musica dalla testa, quella che gli impediva di restare lucido. Ai suoi occhi, scindere i due enti, arte e raziocinio, era fondamentale proprio per questo, per evitare di perdere il contatto col mondo reale… per impedirsi di perdere il controllo, come adesso, e si ammonì tacitamente per essersi messo a pensare al momento sbagliato a vecchie canzoni che la Haparel era solita fargli ascoltare negli anni dell’Accademia, quand’era niente più che un semplice ragazzino che si preparava a diventare un uomo.
“Sì...” ripeté ancora “…Mi chiamo Salkhar. Ha buona memoria, Guardiamarina.” Per un momento, desiderò quasi che quella di ricordarsi il suo nome non fosse stata una semplice dimostrazione della solerzia prestata durante le ore di servizio. Qualcosa che confuse con banale e ordinario interessamento nei confronti di un sottoufficiale che già cominciava a reputare capace. E certamente più attento di lui in merito a queste piccolezze. “Il Suo nome, invece, mi sfugge.” Confessò appena un po’ esitante, mentre proprio ora si accorgeva che il giovane ufficiale non lo stava più fissando negli occhi e sembrava, invece, attratta da qualcos’altro. Ne seguì lo sguardo fino a capitolare sulle mani, che sempre teneva nascoste sotto lo strato di stoffa bianca dei guanti, ancora accavallate nel gesto di poco prima. Neppure in seguito seppe spiegarsi come mai avesse avvertito l’improvviso e impellente bisogno di ficcarsele di nuovo in tasca, perché non gli era mai capitato niente del genere, in tutta la sua vita. Vedere le guance di lei vive di un colore poco più che accennato, la bocca dischiusa, sentirsene lo sguardo addosso era stato… insolito. Così… così… - imbarazzante?
Ma che diavolo gli prendeva, di punto in bianco? Mai possibile che quella ragazza potesse fargli questo strano effetto?
Tirò un lungo respiro, deciso a ridarsi un contegno. Lasciò che quel breve momento d’incertezza scivolasse via rapidamente, mentre riprendeva possesso su controllo e coscienza, poi sottopose il caso alla logica. Perché doveva per forza esserci una spiegazione razionale a quel suo comportamento anomalo. E la conclusione che ne trasse, seppur forzata, riconduceva ad una necessaria precauzione nei confronti di qualcuno che conosceva solo da pochi minuti.
“Si sente bene?” Ebbe, comunque, premura di chiederle. Era palese che quello del Sottotenente non fosse solo semplice affaticamento, ma cercò ugualmente di accettare quella come unica soluzione. E, quando lei slittò ad un altro argomento, gliene fu inconsapevolmente grato… almeno fino a che non arrivò a toccare questioni piuttosto scomode.
“Scusi?” Aggrottò le sopracciglia e mimò di porgerle l’orecchio, come chi si auguri di non aver capito bene. Ma aveva capito benissimo. Non parve preoccuparsi troppo dell’evidenza e più sembrava premergli di mettere subito le cose in chiaro. “Posso assicurarLe che il Suo è un caso isolato, Guardiamarina, statisticamente ineccepibile, se preferisce.” Risoluto, riportò la sua antitesi come un dato di fatto. Perché lui stesso ne era così convinto da non poter accettare una soluzione differente, neppure di fronte una prova così schiacciante. “Questo rafforza la mia convinzione che Lei non sia puramente vulcaniana ed abbia, forse inconsciamente, potuto acquisire qualche capacità extrasensoriale aliena estremamente sofisticata.” Concluse, sobrio. Troppo sobrio. Schifosamente sobrio. Sobrietà che vacillava un po’ di più ad ogni nuova parola della giovane donna. Era ovvio che volesse provocare e lui, senza rendersene conto, stava pure dandole adito.
Straordinario, diceva? Non c’era niente di straordinario nell’essere sospeso a metà tra ragione e violenza.
“Irrilevante.” Fu freddo, perentorio, e stavolta lo ignorò, il sorriso che lei gli offriva. Prese a spostarsi, invece, e la superò nuovamente, a passi lenti, sostenendone lo sguardo fino a che gli fu possibile, frattanto che portava le mani ad allacciarsi dietro la schiena. L’atmosfera cominciava ad irrigidirsi.
“Sono nato su Vulcano. Mia Madre era una vulcaniana, mio Padre romulano solo per metà.” Non sembrava una confessione, dava più la sensazione di stare fornendo una serie di dati ad un problema. “Sono cresciuto tra vulcaniani, sotto stretta osservanza delle ideologie e della disciplina vulcaniane e non ho mai lasciato il pianeta, prima della sua distruzione.” Una breve pausa, che prese per tornare a voltarsi, occhi nuovamente agli occhi. “Il sangue non è motivo di influenza. La Sua conclusione non è logica.” Concluse e se da un lato poteva essere vero, logico, dall’altro… dall’altro c’era quel legame naturale con Sorak.
Ma non pretendeva che lei capisse. Ascoltò, ascoltò tutto quello che avesse da dirgli e, più andava avanti nella sua storia, più la convinzione che il Guardiamarina si sbagliasse diventava più forte. Perché cosa poteva saperne di cosa significasse essere vulcaniano la figlia di una V’tosh ka’tur, cresciuta su Delta IV, dalle dubbie origini e perfino affidata ad un mentore mezzo umano? Che pretendeva di saperne?
“Capisco.” Si limitò a darle in risposta e solo dopo una breve pausa aggiunse dell’altro. “Conosco l’Ambasciatore Spock. Non di persona.” Le confidò. Poi si passò una mano tra i capelli, segno che tornava a rilassarsi. “Ma è noto il suo impegno per i vulcaniani superstiti. L’Ambasciatore ha tutto il mio apprezzamento.” Beh, in realtà, quello del giovane Comandante per Spock era più di semplice apprezzamento. Se ora era lì, nella Flotta Stellare, braccio destro del Capitano Harris della U.S.S. Eternity, era solo per seguire l’esempio di qualcuno che ammirava e per cui nutriva un profondo rispetto.
#9

T'Kaat

Vulcan/Q

Lo strano momento appena trascorso aleggia ancora nella sua mente, isolato ma sospeso, intoccabile ma inconcluso. Un caso unico ed ancora irrisolto, così diverso da qualsiasi precedente episodio di attrazione verso un altro individuo. Non era mai accaduto niente di simile quando da Cadetto, in Accademia, rimaneva colpita dalla conversazione brillante di un compagno o di una compagna, o dal loro viso, o dai loro corpi in movimento durante gli allenamenti. In quei casi i sintomi dell’interesse sessuale l’avevano affascinata, avevano solleticato la sua curiosità e li aveva assecondati, in alcuni momenti quasi come un oggetto di studio, in altri quasi come un’azione di gioco. Funzionava tutto attraverso sguardi, discorsi sapientemente aperti a più interpretazioni, piccoli movimenti ed espressioni intenzionalmente provocanti. Alcuni esseri umani e betazoidi sembravano perfino trovare particolarmente eccitante quel rituale a causa della sua apparenza puramente vulcaniana - convinti, probabilmente, di aver conquistato una preda massimamente difficile.
Ancora prima, poi, quando aveva avuto a che fare con altri della sua specie nota durante i primi tempi dell’educazione su Nuovo Vulcano, l’unico tipo di interazione con i suoi coetanei era stata o di tipo prettamente scientifico, o di aperta disapprovazione reciproca.
Insomma, mai si era ritrovata a desiderare in modo così incontrollato di guardare ancora e meglio delle dita attraverso uno strato di stoffa. Per non parlare di quella tensione elettrica lungo la spina dorsale! Mentre si chiedeva che suono avesse potuto produrre se ci fosse stato un modo di collegarla direttamente al suo sintetizzatore, si sentiva anche convinta che l’unica valvola naturale di sfogo doveva essere il contatto con quelle dita.
Ma tutto questo sarà in grado di elaborarlo soltanto più tardi, in un momento in cui la dimensione solitaria a cui tanto è abituata e che tanto apprezza le si mostrerà con una temporanea perdita di valore, dandole la possibilità di domandarsi il perché.
Per ora, invece, la sua capacità di analisi sul fenomeno sembra essere altamente compromessa, e sicuramente non viene aiutata dall’espressione che coglie per alcuni istanti sul volto di Salkhar quando finalmente riesce ad alzare lo sguardo. È a quel punto che, per qualche ragione incapace di prestare ascolto all’istinto e alla spinta della volontà cieca, arriva il repentino ricorso ad un argomento ufficiale. Quanto risulta debole ora, però, la sua intensità! E pensare che è passata nemmeno un’ora da quando è giunta in questo posto proprio sotto la spinta del rimuginare stizzito riguardo alla questione.
E a proposito di stizza... eccola rimontare, improvvisa e cruda, al solo sentirsi chiedere come si chiama e come si sente. Se avesse avuto ancora in mano il bastone con cui si allenava poco prima e se avesse lasciato libera di manifestarsi tutta l’infantilità che ancora si trovava in lei, questo sarebbe stato sicuramente il momento in cui avrebbe cominciato a picchettare ripetutamente in testa il suo Comandante, urlando una serie di appellativi per niente adeguati.
Fortunatamente, però, riesce a concedersi, per il momento, una sola provocazione, per poi attingere alla calma necessaria a portare a termine la propria spiegazione. Il pensiero che in conclusione rivolge al suo mentore potrebbe poi perfino e essere sufficiente a perpetrarlo, questo stato, ma dall’interlocutore arriva, giustamente, una reazione uguale e contraria che genera, a sua volta, una reazione a catena.
Gli occhi si stringono, sotto la fronte corrucciata. Le mani si irrigidiscono, una si chiude a pugno ed entrambe viaggiano nuovamente dietro la schiena. Quella punta di verde sulle gote è ormai visibile solo appena appena. È di nuovo immobile, la sua stasi è marmorea e fredda. La sua stasi è la sua distanza. Al contrario di come sembra abitudine dell’altro, per lei il movimento è solo calore e avvicinamento.
« Il suo ragionamento è svolto con un tale peso di quelli che idiomaticamente vengono chiamati ‘paraocchi’ da far vacillare quello che era un mio ottimo giudizio nei suoi confronti ». Parla piano, con tono sottile, monocorde, le labbra quasi immobili e lo sguardo fisso. Se fosse stato un klingon, starebbe anche sicuramente emettendo un ringhio soffocato.
« Fortunatamente per lei, terrò in considerazione le idiosincrasie proprie della cultura con la quale tiene tanto ad essere identificato. Mi perdoni... » muove altri due dei suoi passi verso il giovane ufficiale - sempre danzanti, com’è loro peculiarità, ma meno leggeri; per usare un paragone, se prima danzavano su Brahms, ora danzano su Wagner. « ...ma la logica suggerisce piuttosto che il sangue non è una cosa di cui si possa decidere anche di non tener conto. Il suo rischia quasi di essere un comportamento romantico. Il suo genotipo, il suo ultimo pasto e il suo Kahs Wan hanno la stessa, identica rilevanza, la stessa identica, influenza. » Senza che se ne renda conto, ora, il tono della sua voce sta incontrando una graduale ascesa, contenuta ma comunque percettibile.
« Quello che conta è che in lei la quantità di elementi che vanno rielaborati è più ampia, le possibili combinazioni sono un numero più alto e la forma che può risultarne può essere quella be-el-quella che ho avuto la possibilità di osservare al principio della nostra conversazione. »
Ora le sue braccia sono di nuovo lungo i fianchi, ma lasciamo perdere per un momento la descrizione della posizione fisica e focalizziamo la nostra attenzione su quel “be-el-quella”, questo suono strano che abbiamo appena ascoltato. Ebbene, si tratta di un lapsus interrotto. Se non si fosse resa conto a metà strada che il termine non era esattamente appropriato alla situazione, la parola che sarebbe venuta fuori naturalmente sarebbe stata “bellissima”.
Adesso possiamo tornare alle sue braccia, che si stanno incrociando davanti al petto. « E può scommetterci che ho acquisito qualche capacità aliena estremamente sofisticata. Ma dubito che si tratti di qualcosa di extrasensoriale. »
In queste ultime parole, il tono si è nuovamente abbassato e ha assunto una sfumatura leggera di sfida un po’ sarcastica, un po’ infantile.
Nel frattempo gli arti superiori stanno scivolando verso una nuova posizione. Non sono più semplicemente conserti: la mano destra è poggiata sul fianco sinistro e viceversa, in quello che si può definire ‘auto-abbraccio’. Nonostante la fronte ancora aggrottata, inoltre, le sopracciglia e gli angoli degli occhi si sono abbassati. Prima che apra bocca, la sua nuova posizione potrebbe suggerire un certo timore per l’effetto che le sue parole possono avere su quella che comunque è una persona più grande e, al di là di qualsiasi dimensione più privata, pur sempre un suo superiore. In realtà, di questo le importa poco. Dà ormai per assunto che la conversazione prosegua di comune accordo ed è sicura di non aver mancato formalmente di rispetto. Quello che sta per dire, infatti, rende piuttosto chiaro che non è con il timore che si trova ad aver a che fare, ma con una specie di... tristezza, seppur goffamente mascherata.
« D’altra parte, conto sul fatto che provvederà presto a rileggere con più attenzione il documento degli incarichi. Posso suggerirle che generalmente i diretti sottoposti sono più propensi a svolgere le proprie mansioni e prestare il proprio servizio sotto un ufficiale che ha avuto cura per lo meno di memorizzare i loro nomi. » O, in altre parole, le avrebbe fatto dannatamente e illogicamente piacere scoprire che, in qualche modo, lui era già a conoscenza del suo. Ecco, i vantaggi dell’essere in grado di mentire.
#10

Salkhar

Vulcan/Romulan

Lunatismo. Un’altra volta, come tante già in passato, poté averne una dimostrazione tangibile e tutta emozionale. Amava definirla l’apoteosi dell’antitetismo, che veniva ad emergere, uguale e, allo stesso tempo, contraria dai reconditi di un unico essere. Lo sguardo acceso, che solo fino ad un attimo prima raccontava di vivace desiderio, aveva ora assunto un acre sapore di disincanto. Era rabbia, disapprovazione, quella che si leggeva su quel volto dai connotati ancora tanto infantili? Collera, sdegno, le chiamavano i sentimentalisti? Ciò non seppe bene identificarlo, non con dovizia di particolare, ma era sicuro che qualcosa fosse improvvisamente andata storta. La conferma erano le strette fessure degli occhi, la fronte arricciata, la rigida postura dell’immagine, prima distesa ed ora ritta, indurita in una stasi di ostinazione. Una stasi che fece scivolare via del tutto la magia dei momenti trascorsi, per cedere il posto ad un convenzionalismo forse troppo avulso ed estromettente per avere la forma di due ingenui ragazzini che giocavano a fare gli adulti pretenziosi.
Ascoltava, ascoltava tutto, Salkhar. Non si lasciava sfuggire una parola e neppure gli sfiorò l’idea di interromperla mentre continuava ad accusarlo. Perché era un’accusa, quella che gli stava muovendo, o almeno a lui suonava come tale. Sollevò le sopracciglia quasi per scherno, d’un tratto poté apparire addirittura ironico, come stesse prestando attenzione alle opinioni di un folle che pretendesse di avere ragione. Perché era quello che, ora, credeva di lei, benché, in fondo, nel katra più nascosto, la parte che non avrebbe mai imparato ad accettare, sapeva che il giovane Sottotenente non stava del tutto farneticando.
Attese che la sua interlocutrice ebbe terminato il lungo monologo, il giovane Comandante, ancora con le mani allacciate dietro la schiena, in un duro formalismo che gli conferiva aria di superbia, accentuata forse dalla statura, per la quale poteva solo guardarla dall’alto in basso.
“Capisco.” Mancava ironia nelle parole. La voce piatta, malgrado l’apparenza volesse rivelare tutt’altro.
Riprese a muoversi – mal sopportava di stare troppo tempo fermo allo stesso posto – questa volta spostandosi sulla sinistra, a falcate brevi e controllate.
“Ma ritengo che quella dei paraocchi – per riprendere la Sua espressione – sia un’accusa reversibile, a Lei stessa imputabile.” Ora le dava le spalle. “Sarebbe stata più credibile se avesse almeno provato a mascherare l’astio, ma così cade in contraddizione. Il Suo diventa un giudizio fazioso.” Rigirò su se stesso, ripercorrendo i suoi passi a ritroso, lento, e solo di tanto in tanto ne incrociava lo sguardo. “Apprezzo, comunque, lo sforzo di condiscendenza alle idiosincrasie culturali, che – mi permetta di confessarLe…” tornò a fermarsi, a questo punto, davanti all’altra “… sono per me motivo di vanto.” Non ebbe bisogno di usare particolari inflessioni per risultare sardonico, palesemente provocatorio.
Breve pausa. Le offrì il tempo di metabolizzare, mentre lui riorganizzava i pensieri, prima di proseguire. Forse, piuttosto meschino da parte sua, ma non riteneva di essere stato il primo a cominciare.
“A tal proposito, mi perdoni Lei, ma ritengo sia inesatto affermare che il sangue abbia la medesima valenza di altri elementi e, anzi…” già troppo aveva resistito immobile, per questo si diresse sulla destra, questa volta. Le mani che, dalla schiena, tornavano a scivolare nelle tasche. “…ritengo che la percentuale di influenza sia talmente infima da essere addirittura trascurabile.” Trascurabile per suo fratello, forse meno per suo padre. Forse meno per lui.
“Genotipo è solo forma animale, corredo cromosomico, intelaiatura – per usare una metafora – che nelle creature pensanti, logiche, può essere facilmente eclissato dai risultati fenotipici, dall’esperire materiale, se preferisce.” Perché doveva essere così, perché sapeva che Sorak era diverso. Stesso cuore, stesso riflesso, ma qualcosa negli impulsi non era mai stata la stessa. C’era quella forza critica, quella consapevolezza di sé che da sempre li rendeva così… distanti. “Società, cultura, educazione nutrono la mente, la rafforzano, e più forte è la mente, più la capacità di controllo diventa incisiva.” Mente. Controllo. Logica. Costanza. Parole che riecheggiavano nella testa, come un maledetto mantra, come legge e tormentata ossessione. Inconscio fu il gesto di mordersi il labbro inferiore per un breve istante, quando, ancora una volta, dava a lei le spalle. “La Logica rende l’azione genotipica inefficace, offrendo il beneficio dell’equilibrio e dell’autocontrollo.” Quella conclusione, la sua conclusione, era anche il credo di tutta una vita. Così radicato da rendergli futile la presa di posizione della giovane donna che, ora, figurava ai suoi occhi con le braccia al petto, conserte. Si chiudeva, mentre lui era un passo più vicino. “Può trovare questo d’interessante in me, se può farLe piacere:…” due passi “…il distacco dall’alieno, la cessazione dell’elemento estraneo.” Tre passi. “Posso dargliene atto, altrimenti…” Adesso fermo, a poco più di un metro. “…resti pure della Sua convinzione. Non cambierebbe comunque la realtà dei fatti.” Finiva così, per lui, quello scambio di opinioni, in un imperativo categorico, che lasciava poca possibilità alle ritrattazioni. Logica era certezza, certezza assoluta, infallibile, tassativa e vent’anni erano stati sufficienti a consolidarne la convinzione. Comunque il Sottotenente la pensasse, non aveva per lui alcuna importanza. Anche a costo di ferirla, perché era troppo forte, l’istinto di autodifesa, per essere ignorato. La osservava stringersi con mestizia nel suo abbraccio solitario e si disse che era stato necessario. Ma non era molto sicuro che quell’aria amareggiata fosse il risultato della sua aperta riflessione. No. Non poteva essere così semplice, non così banale. Timore reverenziale? Non avrebbe mai potuto covare risentimento per una questione trascendente la disciplina, ma allora… poteva ricondursi alle parole che lei avrebbe pronunciato subito dopo? Parole che volevano ammonire, ma non lo facevano.
“Ad esclusione di me, del Capitano Harris e del Comandante Heparel, l’Eternity conta settecentoquarantasette ufficiali, Guardiamarina. Comprenderà che non è una cifra esigua.” Non tentava di giustificarsi, solo di renderla partecipe di una sua difficoltà. Eppure qualcosa gli suggeriva che avrebbe fatto meglio a restarsene in silenzio. E fu ciò ad impedirgli di lasciar morire la diatriba, anche quando nella sala risuonò un breve fischio, seguito dall’annuncio di una voce che pareva sintetica.
“Il Comandante Salkar è richiesto sul Ponte 9. Ripeto: il Comandante Salkar si presenti al Ponte 9.”
“Ma non posso certamente negare che si tratti di una mia mancanza, a cui provvederò a porre rimedio stasera stessa.” Era una promessa, la sua, seppur obliqua, mascherata da dovere professionale. E con quella promessa sollevò la mancina nel gesto del ta’al. Dif-tor heh smusma.” Il suo egoistico saluto di circostanza, a cui appose un leggero cenno del capo, prima di voltarsi e incamminarsi verso l’uscita. Sapeva, però - in cuor suo, sperava – che quello, tra loro, non sarebbe stato l’ultimo battibecco
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